Battaglie In Sintesi
Gennaio - Settembre 1848
Nacque il 10 maggio 1784 a Cava de' Tirreni (Salerno) da Gaetano, noto giurista illuminista, e da Caterina Frendel, nobile ungherese, chiamata a Napoli dalla regina Maria Carolina per educare la figlia secondogenita. Morto il padre nel 1788, la madre mantenne contatti con l'ambiente intellettuale e, assumendo ella stessa il ruolo di insegnante per le lettere latine, scelse per i figli valenti maestri: G. Capocasale per la filosofia, V. Caravelli e V. Porto per le scienze esatte. Ben presto tuttavia il Filangieri mostrò di preferire la carriera delle armi e la regina gli fece concedere nel 1797, mentre egli era ancora studente, il grado di ufficiale di cavalleria nel reggimento "Principe Leopoldo". La rivoluzione del 1799 non lo coinvolse in pieno, data la giovane età, ma determinò ugualmente una svolta nella sua vita. La sua partecipazione alla seduta della commissione legislativa che, per bocca di D. Cirillo e M. Pagano, aveva commemorato il padre Gaetano Filangieri, durante la prima Restaurazione fu giudicata, infatti, compromettente per la famiglia, nonostante un editto di perdono. Perciò Caterina Frendel, avvertendo un clima di ostilità, decise di mandare i figli in Spagna presso il cognato Antonio Filangieri, capitano generale delle milizie spagnole, perché proseguissero la carriera delle armi (1800). Mentre erano in viaggio, però, il sovrano spagnolo, Carlo IV, in seguito agli avvenimenti rivoluzionari, aveva vietato l'ingresso in Spagna ai Napoletani. I ragazzi si fermarono a Milano, appena divenuta capitale della Repubblica Cisalpina. Accolti entrambi con favore, in considerazione della fama del padre, vennero indirizzati in Francia con una lettera per il primo console perché vi completassero gli studi. A Parigi i due fratelli Filangieri furono ammessi al Pritaneo, l'ateneo militare francese, poi Scuola politecnica, ove il Filangieri ben presto primeggiò. Il 18 nevoso dell'anno XI (8 gennaio 1803) iniziò la carriera nell'armata francese col grado di sottotenente nel 33º reggimento di fanteria, partecipando alle campagne del 1803, 1804 e 1805. Il 2 dicembre 1805, alla battaglia di Austerlitz, ottenne sul campo il grado di capitano e poi, per i meriti conseguiti, il brevetto di luogotenente; nel frattempo compì alcuni brevi soggiorni a Napoli. Cessate le ostilità dopo il trattato di Presburgo del dicembre 1805, il Filangieri si dedicò a studi comparativi di carattere militare, ma fu richiamato nel Regno di Napoli dopo la conquista da parte dei Francesi nel febbraio 1806. Giunto a Napoli nel maggio, fece parte dello stato maggiore dell'esercito come capitano e fu nominato aiutante di campo del generale M. Dumas, ministro della Guerra; spedito all'assedio di Gaeta, terminato il 19 luglio, fu nominato capitano dei cavalleggeri volontari della guardia del re Giuseppe Bonaparte e, per il valore dimostrato anche nella difesa del ponte sul Garigliano, ebbe la Legion d'onore. Negli ultimi mesi del 1807 collaborò col generale J.-L. Reynier in Calabria nella campagna che proseguì fino alla conquista di Reggio.
Nell'ottobre 1807 ebbe la carica di scudiero del re e la croce di cavaliere dell'Ordine delle Due Sicilie; nel 1808 fu promosso caposquadrone dello stato maggiore dell'esercito. Nel luglio dello stesso anno, divenuto Giuseppe Bonaparte re di Spagna, accompagnò la regina Giulia a Lione. Si recò quindi a Tolosa presso Napoleone, e di lì in Spagna, aggregato all'esercito francese nella guerra contro gli insorti spagnoli. Si distinse in varie operazioni, per cui ottenne il grado di maggiore, poi di tenente colonnello e fu scelto dal maresciallo J.-B. Jourdan come sottocapo dello stato maggiore del suo corpo d'esercito. Nel novembre a Burgos sfidò ed uccise in duello il generale J.-B. Franceschi, reo di aver espresso giudizi poco lusinghieri sui Napoletani, e, dopo un ennesimo coinvolgente incontro con Napoleone, che gli rimproverò il suo carattere impulsivo ("testa di Vesuvio"), fu rimandato a Napoli. Inviato prima in Abruzzo Citra per formare la milizia provinciale, il 28 maggio 1810 raggiunse a Palmi, in Calabria, il re Gioacchino Murat, partecipò ai fatti d'arme di Maida, Bagnara e Scilla contro le cannoniere inglesi, divenne ufficiale d'ordinanza del re ed ebbe la croce di commendatore dell'Ordine delle Due Sicilie. Nel 1811 partì per la spedizione contro la Russia, ma nel 1812 fu richiamato a Napoli, minacciata dallo sbarco delle truppe anglo-sicule, di cui più volte respinse gli attacchi. Al ritorno del Murat dalla Russia nel novembre 1813 e prima del trattato austro-napoletano il Filangieri, che era stato promosso il 5 luglio maresciallo di campo, partì per l'Italia centrale come avanguardia della divisione del tenente generale M. Carrascosa; e fu stanziato prima a Ferrara, poi a Bologna, a Modena e infine presso il maresciallo austriaco H. J. Bellegarde. Durante la campagna d'Italia del 1814 visse le conseguenze dell'incerta politica murattiana, ora alleato con gli Austriaci. Dopo molti scontri sulle rive del Taro e del Mincio, ora a favore dei Napoletani ora a favore degli Italici del viceré Eugenio, il Filangieri il 24 aprile 1814 si ritirò a Bologna con la sua brigata. Il 26 il Murat lo nominò suo aiutante di campo. In maggio stazionava nelle Marche, ma poco dopo fu richiamato a Napoli per far parte del Consiglio militare del re. Dal giugno-luglio 1814 fu incaricato di numerose missioni diplomatiche al congresso di Vienna e a Parigi, quando il sovrano ancora sperava di uscire indenne dalla fase di ripristino della "legittimità" alleandosi con l'Austria. Il Filangieri dovette tuttavia constatare in entrambi i luoghi la diffidenza delle potenze europee (tranne l'Austria) e della diplomazia francese in particolare (soprattutto del Talleyrand), verso il Murat, già prima della fuga di Napoleone dall'Elba. Dopo il ritorno di Napoleone a Parigi il Murat nel marzo 1815 aprì le ostilità contro l'Austria e il Filangieri partecipò alla campagna d'Italia: il 4 aprile, durante la marcia delle truppe verso Modena. conquistò il ponte di Sant'Ambrogio sul Panaro e fu nominato sul campo tenente generale, ma, gravemente ferito, non poté più continuare la guerra. Trasportato a Napoli guarì, ma rimase claudicante alla gamba destra. In tale periodo ereditò dalla zia Teresa Filangieri, coniugata Ravaschieri Fieschi, il patrimonio in Calabria, formato dai feudi dei Ravaschieri Fieschi a cui era congiunto il titolo di principe di Satriano. Le opere relative a questa fase della vita ed al rapporto coi sovrani francesi, le stesse memorie autobiografiche, scritte in periodo borbonico, e talora nelle fasi repressive della Restaurazione, tendono o a sottolineare che, pur al servizio dei Napoleonidi, il Filangieri aveva rifiutato di prendere le armi contro i Borboni e che il suo rifiuto era stato rispettato (ma le campagne in Calabria lo avevano visto in prima linea contro gli Anglo-siculi) o comunque ad inquadrare la sua collaborazione come riflesso di una fondamentale adesione al ruolo di militare, fedele al proprio sovrano, chiunque questi fosse: atteggiamento che i suoi detrattori invece consideravano opportunista ed espressione di un'ambizione smodata. In realtà il Filangieri fu un tipico esponente della generazione "murattiana" avendo, fino al 1815, partecipato a dodici campagne, sì da divenire tenente generale. Fu perciò anche durante la vecchiaia tacciato sempre di "napoleonico" e portò nella vita politica del Regno una visione militare e amministrativa di impronta francese. In linea con la politica borbonica dell'"amalgama" inaugurata dalla seconda Restaurazione, finito il regno murattiano con il trattato di Casalanza (20 maggio 1815), venne confennato nel grado. Con la Restaurazione iniziò anche una nuova fase della vita del Filangieri in cui questi, più che sui campi di battaglia, si segnalò per le capacità diplomatiche, amministrative ed imprenditoriali. In vista di un riordinamento dell'esercito, fu infatti nominato nel 1815 componente del Consiglio di guerra, come esponente del disciolto esercito murattiano, ed elaborò un progetto basato sull'obbligo della leva, poi respinto dal re. Il Filangieri si dimise per dissensi su alcune iniziative ed il Consiglio fu sciolto nel 1816. Designato il generale austriaco L. Nugent capitano generale dell'esercito napoletano e ministro della Guerra, il Filangieri fu nominato ispettore generale della fanteria di linea. Alla inopportuna politica militare del Nugent, ispirata a criteri di risparmio e basata su disposizioni empiriche e frammentarie, il Filangieri attribuì il diffondersi della carboneria nell'esercito di cui ebbe sentore ben prima del 1820. Nel 1818 ebbe la gran croce dell'Ordine di S. Giorgio e dal maggio 1820 fu ammesso alla corte come gentiluomo di camera del re. Il 6 aprile 1820 sposò a Palermo Agata Moncada, figlia del principe di Paternò. Dopo il 2 luglio 1820, quando scoppiò la rivolta a Nola, egli rimase fedele al re e operò per il controllo dell'ordine pubblico nella capitale. Accettò nel "nonimestre" alcuni incarichi militari: il 12 luglio ebbe il comando della guardia reale, il 14 il comando della fanteria della guardia, il 17 fu posto a capo della giunta creata per depurare l'esercito dagli elementi sospetti, ma si dimise perché vi vide un intento persecutorio verso i più devoti al re. Incapace di trovare una propria collocazione, attaccato dalla stampa, il 14 agosto rinunziò a tutti gli "incarichi, gradi e impieghi militari" (Moscati, 1933, p. 37), ma le dimissioni furono respinte dal vicario generale, duca di Calabria. Conosciuto il proclama di Lubiana del 21 febbraio 1821 col quale Ferdinando I esortava i Napoletani ad accogliere gli Austriaci, che stavano per invadere il Regno, come alleati, il Filangieri sostenne che essi dovevano essere combattuti e perciò fu poi destituito.
Dopo la sconfitta del governo costituzionale il Filangieri fu esonerato dal comando della guardia reale il 27 marzo 1821, sottoposto alla giunta di scrutinio, privato di ogni grado e onorificenza con decreto 29 luglio 1821. Gli si fece accusa postuma del legame con Murat: attaccato dalla stampa, sia borbonica sia liberale, si ritirò, allora, nei suoi possedimenti calabresi, e nel bosco di Razzona, a Cardinale, fece sorgere, probabilmente nella seconda metà degli anni Venti, una piccola ferriera. Tornato a Napoli, tentò di dar vita in Calabria a varie manifatture facendo venire artigiani e materiali da altri Stati: impiantò una fabbrica di sapone, un mulino a vapore, una vetreria e nel 1837, quale azionista della Società industriale partenopea, una manifattura di tessuti di lino, cotone e canapa a Sarno: attività che fallirono ed assorbirono tutti i suoi beni, ma che indicano una certa sensibilità imprenditoriale. In quegli anni il Filangieri intervenne anche nella polemica fra protezionisti e liberisti a favore dei primi e dei grossi monopoli pubblici e privati interessati allo sviluppo di una siderurgia nazionale, indirizzando contro il liberista M. L. Rotondi, autore delle anonime Riflessioni economiche sul ferro (Napoli 1838), una Risposta alle riflessioni economiche sul ferro (ibid. 1838). Con l'avvento al trono di Ferdinando II (1830), nel clima di rinnovamento dei primi anni del regno, che comportava il recupero alla vita politica di molti ex murattiani, il Filangieri era stato richiamato a corte l'11 gennaio 1831. Reintegrato nel grado di tenente generale, ricevette l'Ordine di S. Gennaro ed ebbe il compito di vagliare la possibile riammissione di ufficiali destituiti. Fece parte della Dieta dei generali, incaricata di riordinare l'esercito, e resse, fino al 1849, la direzione generale dei corpi facoltativi, artiglieria e genio. Rinnovò il collegio militare di Napoli, cui aggiunse una scuola di equitazione, favorì gli studi di storia militare, ma soprattutto si adoperò per la risoluzione dei problemi dell'artiglieria. A Castelnuovo sorse una sala di modelli di armi e nel 1845 fu pubblicato a Napoli l'Atlante del nuovo sistema di artiglieria, con 72 tavole, lavori che trovarono uno sbocco pratico nella simulazione di un assedio a Capua. Curò gli stabilimenti e le manifatture militari di armi, rimodernò le opere di difesa del Regno, rendendo inespugnabile Gaeta, migliorò fortezze, ospedali e caserme, portò a nuova vita l'ufficio topografico istituito dal Rizzi-Zannoni, fece sorgere l'arsenale, la fonderia ed altri importanti edifici militari. Favorì l'impianto dell'officina di Pietrarsa e di una scuola teorico-pratica dei macchinisti, che si rivelarono utili anche dopo l'annessione al Regno d'Italia. Allo scoppio dei moti del 1848, con la rivoluzione in Sicilia e poi a Napoli, il Filangieri fu tra coloro che spinsero Ferdinando II a concedere la costituzione del 10 febbraio. Durante le successive trattative per una lega dei principi italiani e dopo la dichiarazione di guerra all'Austria il Filangieri si offrì di guidare le due divisioni di fanteria e cavalleria che dovevano unirsi ai soldati piemontesi, ma, fatto oggetto di attacchi da parte della stampa, si vide preferire G. Pepe, che ritornava a Napoli dopo ventotto anni di esilio, e in aprile si dimise. Convocato dal re dopo la reazione del 15 maggio, il 26 agosto ebbe il comando delle truppe di terra e di mare per la spedizione in Sicilia, terra da riconquistare dopo l'insurrezione del 12 gennaio e la dichiarazione d'indipendenza da Napoli. L'8 settembre, dopo ripetuti assalti, si impadronì di Messina e delle zone circostanti; cercò quindi di reintrodurre un'ordinaria gestione della giustizia e dell'amministrazione nella zona occupata, operò in favore del commercio, ma dovette difendersi dalle accuse pubblicate dalla stampa estera, secondo cui la città era stata bombardata per otto ore consecutive dopo la resa, il che valse al sovrano l'appellativo di "re bomba". Un successivo armistizio, durato fino al 29 marzo, non ottenne la pacificazione dell'isola, in quanto il governo siciliano respinse le strumentali concessioni costituzionali promesse dal re; il Filangieri perciò continuò ad avanzare verso Palermo, contrastato invano dalle truppe comandate dal generale L. Mierosllawski. Ottenuta la capitolazione, cercò di riportare l'ordine nell'isola, concedendo ad alcuni il perdono, riaprendo tribunali e uffici, riarmando la guardia urbana; ma gli oppositori sottolinearono il saccheggio e l'incendio di Catania, l'opera delle corti marziali, la facilità con cui veniva applicata la pena di morte. Il 15 maggio 1849 il Filangieri entrò a Palermo. Per tale impresa, con decreto 19 luglio 1849, gli fu conferito il titolo di duca di Taormina, con dotazione di 12.000 ducati di rendita e il gran cordone di S. Ferdinando. Egli rimase al governo dell'isola col titolo di luogotenente generale, dedicandosi ad un'intensa opera di ricostruzione, nell'ottica dell'indipendenza amministrativa della Sicilia. Che questo fosse il suo obiettivo venne riconosciuto anche dalla storiografia a lui avversa, che ne rimarcava però ancora una volta l'opportunismo, in quanto, guardandosi bene dall'opporsi all'invadenza del sovrano, il Filangieri finiva per dare alla propria luogotenenza le caratteristiche di una dittatura militare (Finocchiaro, pp. 337-341). Al contrario altri storici, come G. De Sivo, lo accusarono di tolleranza nei confronti delle speranze autonomiste. La luogotenenza del Filangieri incise profondamente sulla vita dell'isola per la riorganizzazione compiuta nei più svariati campi, da quello finanziario a quello scolastico e universitario, a quello commerciale. Da antico murattiano, il Filangieri operò soprattutto sotto il profilo politico-amministrativo, restituendo alla Sicilia l'autonomia persa nel 1837, "cercando di spingere innanzi, benché con scarso successo, le restanti operazioni demaniali, riuscendo anche a conciliare provvisoriamente alla monarchia una frazione della aristocrazia palermitana, irritata e spaventata dalle tendenze democratiche manifestatesi nel 1848" (Romeo, pp. 358 s.). In sostanza, comunque, come sostiene il Romeo, egli, "nonostante qualche platonico atteggiamento costituzionale, era e restava ministro di assolutismo, intimamente assolutista...", per il suo ritenere la paura "elemento di governo coi perversi", per aver ordinato le fucilazioni del 28 gennaio 1850 e aver appoggiato gli arbitrii della polizia. Ostacolato dai militari di corte, che lo avevano soprannominato ironicamente Carlo I, e dal ministro di Sicilia a Napoli, il messinese G. Cassisi, il Filangieri si dimise quando venne aperta un'inchiesta, soprattutto contabile, sulla gestione luogotenenziale, i cui risultati furono pubblicati nel 1855. Dopo sei anni di governo dell'isola, il 12 febbraio 1855 gli fu accordato il ritiro e si accettarono anche le sue dimissioni da generale. Il Filangieri tornò quindi a vita privata, stabilendosi a Ischia. Benché non ricoprisse ormai alcun ufficio, era consultato spesso dal re. Morto Ferdinando II il 22 maggio 1859, il nuovo sovrano Francesco II, dopo i tumulti del 7 giugno a Napoli, mentre era in pieno svolgimento la guerra in Lombardia, lo nominò presidente del Consiglio dei ministri e ministro della Guerra. Il Filangieri non fu circondato da uomini da lui scelti, limitandosi ad accettare i nuovi direttori imposti dal re; il suo coinvolgimento era emblematico dell'invecchiamento dei quadri dirigenti borbonici dal momento che ancora operavano nei più alti gradi funzionari e militari formatisi durante il decennio francese. Certamente nel maggio 1859, in un periodo critico, apparve come l'unico dotato dei requisiti di esperienza ed intelligenza necessari a riordinare lo Stato, in quanto individuo abituato ad ispirarsi ad una condotta morale fondamentalmente corretta. Fu considerato l'uomo giusto sia dai circoli liberali napoletani e dai circoli degli esuli e degli emigrati a Torino, sia dagli autonomisti, dal governo francese e da quello piemontese e per certi aspetti dalle stesse forze reazionarie, dal momento che ognuno faceva riferimento ad episodi e fasi diverse della sua vita; e il Filangieri abilmente si era preparato il terreno per una chiamata al ministero dovuta, più che alla decisione di Francesco II, alle circostanze politiche. In tale periodo fece sì che fosse sciolta dal re la legione svizzera e fossero formati altri reggimenti di napoletani (due di fanteria e due di cacciatori) e riuscì ad ottenere, con decreto del 16 giugno 1859, l'abolizione delle liste degli "attendibili", i cui effetti furono però annullati dalla circolare Casella, che prescriveva agli ufficiali di polizia di consultare all'occorrenza registri e liste di sospetti.
In contrasto con la fazione austriacante che faceva capo alla regina madre Maria Teresa, cercò di riallacciare i rapporti con la Francia e con l'Inghilterra, timorosa di una ripresa del murattismo nel Regno. Timore condiviso d'altra parte da C. Cavour, che tentò di allearsi coi Borboni e inviò nel maggio 1859 R. Gabaleo, conte di Salmour, in missione presso il nuovo re. Vengono al Filangieri attribuiti in questo periodo sia il lavoro diplomatico di avvicinamento alla Francia sia le pressioni sul re per la concessione di uno statuto costituzionale. In realtà i passi del Salmour e del rappresentante francese A. Brénier furono "sostenuti solo con molta tiepidezza e dubbia buona fede dal Filangieri" e "assai blandi" furono i suoi accenni al sovrano circa i vantaggi del progetto di statuto redatto da G. Manna, sul quale egli fece solo "cauti sondaggi" (Moscati, 1960, p. 60). Il 5 settembre chiese un permesso per motivi di salute, ma, nonostante ciò, per tutto il periodo successivo influì sulle più importanti decisioni prese dal re. A differenza di coloro che, seguendo il conte di Trani, erano fautori della resistenza ad oltranza, il Filangieri guidava i più moderati. Le dimissioni, offerte ripetutamente da ottobre, furono accettate dal re nel gennaio 1860 e rese pubbliche solo il 10 marzo; in questi due mesi egli continuò dal suo rifugio di Pozzopiano ad esercitare le funzioni di ministro della Guerra con effetti "paralizzanti" sul settore (ibid., 1960, p. 69). Venuto a conoscenza dei disegni di Garibaldi contro il Regno di Napoli, cercò inutilmente di indurre il re ad usare la carta dello statuto per ottenere l'appoggio di Napoleone III. Nella primavera del 1860 fece parte del riordinato Consiglio di Stato, e propugnò una riconquista "morale" della Sicilia. Giunto Garibaldi nell'isola, il Filangieri si oppose alla proposta di A. Nunziante e L. Latour di bombardare Palermo. Non ascoltato dal re, che era sotto l'influsso dei suoi cortigiani, si ritirò a Pozzuoli, rifiutando di prendere il comando delle armate napoletane in Sicilia. Mentre a Napoli il 25 giugno veniva promulgata la costituzione ed era formato il ministero di A. Spinelli, si verificarono disordini, ma il Filangieri non fu più consultato dal re, che ormai diffidava di lui. Era considerato pericoloso anche da L. Romano, che ne consigliò l'allontanamento, da Napoli; l'11 agosto 1860 gli fu perciò concesso di partire con la moglie per Marsiglia. Da qui i due coniugi si recarono nell'isola di Hyères, ove vissero per qualche mese, indi, mentre la moglie tornò a Napoli con le figlie Carolina e Giovanna, il Filangieri col figlio Gaetano si recò a Firenze presso la figlia Teresa. Qui rimase fino al 3 dicembre 1862, quando ritornò a Napoli, ove era morta la moglie. Richiamato in attività dai generali A. Lamarmora e M. Fanti nel 1865 per preparare studi sull'esercito, redasse la Composizione dell'esercito attivo dell'Armata d'Italia: studi e progetti che da me furono presentati al ministro della Guerra del Regno d'Italia. Nel 1866 e nei primi mesi del 1867 iniziò una corrispondenza col generale G. S. Pianell sull'ordinamento dell'esercito italiano. Morì per crisi cardiaca nella dimora estiva di San Giorgio a Cremano (provincia di Napoli) il 10 ottobre 1867.
Destinato alla carriera militare, nel 1830 era sottotenente nell'esercito sardo. Insieme con il Brofferio, i due Durando, il Montezemolo, ecc., fece parte di quella società segreta detta dei Circoli, che nel 1831 stese un indirizzo a Carlo Alberto. Arrestato, ma presto liberato e mandato in esilio, fu a Parigi, in Inghilterra, in Portogallo, dove combatté nella guerra in favore di don Pedro col grado di sottotenente, poi in quella di Spagna col grado di capitano. Si trovava a Valenza, quando Nicola Fabrizi lo scelse a capitanare il moto italiano del 1843. Percorse la Sicilia e l'Italia meridionale, non ricevendo buona impressione degli elementi rivoluzionari di Napoli. A Livorno si abboccò con Alessandro Cipriani, il quale gli consegnò 17.000 lire per assoldare ufficiali italiani che avevano combattuto in Spagna, dove andò subito dopo, e il 18 agosto 1843 era di nuovo a Livorno recando con sé il Martelli, il Cucchiari, il Montezemolo, ecc. Colà seppe che il Comitato rivoluzionario toscano era in pieno disaccordo; ciò nonostante, penetrò in Romagna, s'intese con i fratelli Muratori, che furono i principali rappresentanti del moto di Savigno, e l'8 settembre, accordatosi in Bologna con un gruppo d'insorti, marciò su Imola, col proposito di catturare tre alti personaggi della Chiesa (il card. Amat, il card. Falconieri e il futuro Pio IX, allora vescovo di quella città). Fallito quell'audace tentativo, il Ribotti tornò in Spagna, ma nell'ottobre del 1847 era di nuovo in Italia, e dopo breve dimora in Toscana, all'annunzio che Palermo era insorta il 12 gennaio 1848), accorse in Sicilia e da quel governo provvisorio fu mandato a difendere Messina in qualità di colonnello comandante di quella provincia, quindi in Calabria, che era insorta nel giugno, guidando una schiera di settecento patrioti siciliani. La sua azione militare colà fu argomento di aspre critiche. Fallito quel moto rivoluzionario, il Ribotti s'imbarcò per Corfù, ma in mare fu catturato con altri profughi dalla nave da guerra borbonica Stromboli e condotto prigioniero a Napoli, dove fu rinchiuso in Sant'Elmo. Liberato nel 1854, andò in Piemonte, dove fu organizzatore di quella legione italiana che avrebbe dovuto combattere in Crimea, ma che rimase invece inoperosa a Malta. Tornato in Piemonte, s'iscrisse alla Società nazionale italiana del La Farina, e durante la guerra del 1859 ebbe incarico dal Cavour di recarsi segretamente a Parma, poi a Massa per attendere gli avvenimenti. Ivi formò il corpo detto dei Cacciatori della Magra, e dopo Villafranca fu dal Farini, che lo promosse maggior generale, incaricato di organizzare i volontari parmensi. Terminò la sua carriera militare come comandante la divisione di Modena.
La città di Messina, tra le prime di Sicilia a sollevarsi contro il dominio borbonico, rappresentava il cardine per la salvezza dell'intera isola. Da paesi e da città siciliane affluivano volontari, sebbene di valore e di rendimento molto ineguale. Il comitato rivoluzionario, formatosi a Gennaio con il supporto del patriota Giuseppe La Masa, si sforzava d'organizzare gli insorti in formazioni regolari e creava un consiglio di reclutamento per l'esercito regolare siciliano. Non si stabiliva però la leva obbligatoria: già a Palermo ci si era mostrati avversi ad armare gli strati inferiori della popolazione sia in città che nelle campagne. I volontari dovevano impegnarsi a un servizio di tre anni per la fanteria e di sei per la cavalleria e l'artiglieria, ottenevano un premio d'ingaggio di due once (pari a 25 lire) e un soldo giornaliero di 25 grana, oltre il vitto, il vestiario e l'armamento; inoltre si organizzava la Guardia Nazionale, col compito di mantenere l'ordine e difendere le nuove istituzioni, formata di cittadini anziani. E intanto il colonnello Longo, coadiuvato dal colonnello Porcelli, si adoperava per approntare opere di rafforzamento e piazzare batterie; dalla marina sino alla cinta meridionale della città si costruiva un enorme fossato che fronteggiava tutto il piano di Terranova, e dietro ad esso era un robusto parapetto per i fucilieri e postazioni d'artiglierìa. Il 3 marzo giungevano 700 palermitani; era giunta una squadra di volontari da Catania, da Trapani arrivavano 150 uomini col colonnello Romei e il patriota Enrico Fardella, nonché una piccola flottiglia di barche armate di cannoni; e munizioni e offerte di denaro si avevano soprattutto dalla provincia di Messina e di Catania. Il 5 marzo era riorganizzato il comitato generale di Messina e il governo della città e della provincia era affidato a un presidente generale che fu il dottor G. Pisano, e a tre altri comitati, di guerra, dell'annona e della giustizia; quello di guerra fu presieduto dall'avvocato Domenico Piraino. Ma di fatto assunse il comando delle forze siciliane presenti in Messina il generale Ignazio Ribotti, nizzardo, che già abbiamo visto preparare l'insurrezione romagnola nel 1844-1845 e nel giugno '48 sostenere l'insurrezione calabrese. Sottotenente dell'esercito piemontese e cospiratore, aveva dovuto nel 1831 emigrare e aveva combattuto con onore in Portogallo e in Spagna raggiungendo il grado di colonnello. Egli dispose ora le forze in quattro gruppi; due per la difesa diretta della città, al comando di Antonio Pracanica e di Paolo Ristuccia; poi una colonna mobile al comando di Antonino Miloro, e infine un gruppo di marinai al comando di Giosuè Trapani; inoltre era creato il comando d'artiglieria affidato al Longo, e un comando del genio. Il 6 marzo il Ribotti assumeva il comando con un proclama patriottico in cui ricordava però che «la libertà è nulla senza l'ordine; il coraggio è poco senza la disciplina; la forza è apparente senza la concordia». Ma la guerra di Messina era una guerra tutta particolare, contro una cittadella formidabile: l'azione popolare aveva in realtà fatto quanto era possibile; e d'altra parte i volontari non adoperati o tenuti ad affrontare passivamente il quasi quotidiano bombardamento nemico si mostravano irrequieti; e irrequieta era pure la popolazione. Si reclamava un'azione energica contro la cittadella; ma questa non poteva esser presa d'assalto. Il Longo aveva costruito una corona di batterie che dal Real Basso, per la collina, giungevano al mare fronteggiando il bastione Don Blasco. Ma non tutte avevano azione efficace contro la cittadella. Nell'insieme i siciliani contrapponevano 4000 uomini armati alla meglio ai 4000 uomini scelti della guarnigione borbonica e 77 pezzi ai 300 nemici. All'alba del 7 marzo si tentava tuttavia un grande improvviso bombardamento contro la cittadella, ma tosto l'artiglieria borbonica rispondeva e il fuoco durava incessante per dodici ore; al solito la popolazione si mostrava coraggiosa e così pure gli artiglieri, ma i danni veri e propri alla cittadella e allo stesso forte del Salvatore erano minimi. Il giorno dopo il bombardamento era ripreso ma pure con risultati molto scarsi, sebbene da parte messinese si tendesse anzi a credere che i danni borbonici fossero molto gravi. E purtroppo le munizioni d'artiglieria erano ormai molto ridotte, tanto che il comitato accettava l'invito del rappresentante inglese per una tregua, in relazione con le trattative in corso a Palermo con la mediazione del governo britannico. Le trattative come è noto fallirono, perché il governo napoletano avrebbe ceduto su tutto eccetto che sull'unità della corona. Ma il 13 aprile il parlamento dichiarava Ferdinando di Borbone e la sua dinastia decaduti per sempre dal trono di Sicilia. L'isola si sarebbe retta a governo costituzionale chiamando al trono un principe italiano. Il particolarismo isolano trionfava; la Sicilia non aveva i mezzi per resistere al Borbone né la classe dirigente, aristocrazia o borghesia terriera, voleva creare un esercito col servizio militare obbligatorio, cosa che avrebbe portato ad armare i ceti inferiori e ad aprire l'adito a possibili rivendicazioni sociali. In Messina non era stata stipulata una vera tregua, ma di fatto fino alla terza decade di aprile le azioni di guerra sostarono quasi completamente. Il 29 marzo il presidente provvisorio del Regno di Sicilia, Ruggiero Settimo, nominava l'avvocato Piraino commissario generale per Messina; e il comitato di guerra già da lui presieduto era ora diretto da Rosario Onofrio, dotato di attitudini militari. Intanto il Longo s'era adoperato per creare postazioni difensive lungo la costa messinese dello stretto; ma i borbonici conservavano la cittadella e difficilmente avrebbero tentato la riconquista della Sicilia sbarcando lontano da questa; cosicché questi lavori si risolsero in una dispersione di mezzi mentre non era abbastanza difesa la città dal lato meridionale contro uno sbarco a qualche chilometro dalla cittadella. Intanto s'erano cominciati a creare i primi reparti dell'esercito regolare: la divisa era costituita da una blusa color blu, con piccole mostrine rosse, una cintura di cuoio nero e calzoni celeste-grigio e infine un berretto blu scuro come la blusa, con coccarda tricolore. Il popolo li chiamò subito camiciotti dalla blusa che portavano e il nome rimase. Si venivano poi costituendo alcune compagnie di Guardia Nazionale e anche di Guardia Nazionale a cavallo. Il comitato di guerra messinese pressato dalle squadre eleggeva generale delle truppe di linea Antonio Pracanica, incompetente di cose militari, e pure nominava generali Tommaso Landi e Paolo Rituccia, perché da tempo designati dalla «pubblica voce». In questo modo però il Ribotti, mal visto da molti come «straniero», vedeva grandemente sminuita la sua autorità. Forse per questi motivi Nicola Fabrizi, l'ardente patriota modenese combattente in Spagna e per lunghi anni esule infaticabile a Malta, giunto a Messina ospite dell'amico Ribotti rifiutava il grado di colonnello di Stato Maggiore. D'altro lato il colonnello Longo si trovava presto in urto coi nuovi improvvisati generali e si faceva richiamare in Palermo al ministero della Guerra. E analogo attrito sorgeva fra il Ribotti e i due generali d'ultimo conio. Tutto questo non giovava certo al consolidamento delle forze militari siciliane. Giungevano però a Messina, il 29 marzo, il colonnello d'artiglieria Vincenzo Giordano Orsini, ex tenente dell'esercito borbonico e famoso dodici anni più tardi quale comandante dell'artiglieria dei Mille di Giuseppe Garibaldi; il colonnello del genio avvocato Ignazio Galena e il maggiore Burgio di Villafiorita, inviati dal ministro della Guerra di Palermo, marchese Paterno, per studiare i problemi militari della città.
Veniva ora creato accanto al comitato di guerra un consiglio di difesa e l'Orsini ne fu eletto presidente. Il Calona preparava frattanto un piano d'attacco alla cittadella. Egli notava che tutti gli approntamenti siciliani avevano carattere difensivo e non potevano recare che danni lievissimi al nemico; d'altra parte non si poteva prendere di slancio una fortezza ben munita, specialmente con truppe improvvisate, ma occorreva bloccarla e procedere a regolari operazioni d'assedio. E per prima cosa occorreva impadronirsi del forte del Salvatore; proponeva perciò di trasportare a poca distanza dal forte tutti i pezzi d'artiglieria, concentrando il fuoco in un solo punto. Dopo un giorno di bombardamento il comando avrebbe deciso se far seguire all'imbrunire l'assalto del forte che risultava presidiato da 120 uomini. Delle barilie munite alla prua di mantelletti (tavoloni ricoperti di ferro) e con 240 snidati a bordo, si sarebbero accostate all'imbrunire, e gli uomini sbarcati sarebbero andati all'assalto; oppure l'assalto si sarebbe fatto all'alba con l'obiettivo di impedire, alle truppe della cittadella, di accorrere a sostegno dei difensori. Al tempo stesso, il Calona avrebbe voluto che si costruissero batterie dal lato di Terranova; e se l'impresa contro il Salvatore riusciva la cittadella avrebbe potuto venire ora serrata da nord-est e da sud-ovest. Si sarebbe allora dovuto procedere, costruendo trincee e approcci e parallele, dal lato settentrionale. Il Calona riteneva che operando con risolutezza e tenacia la cittadella sarebbe caduta ben presto per blocco o per assedio; e la Sicilia avrebbe potuto considerarsi sul serio indipendente. Sembra che i borbonici cominciassero a non sentirsi più tanto sicuri. Ma la proposta del Calona, avvocato si, ma persona intelligente e capace di rendersi conto anche di problemi militari, urtò nella gelosia dell'Orsini, il quale riuscì, sollevando critiche intorno alla pratica attuazione del piano e adducendo pretesti burocratici, a persuadere il ministero di Palermo a rinviarne l'esecuzione. Per il momento il consiglio di difesa deliberava una ricognizione nella zona di Terranova ed essa ebbe luogo il 6 aprile, con la partecipazione del colonnello Giovanni Romei trapanese, antico soldato napoleonico, dell'Orsini e del maggiore Burgio di Villafiorita. Sembra che la ricognizione si svolgesse con mediocre accorgimento perché incappava nel nemico subendo dolorose perdite fra cui quella del colonnello Romei, ferito a morte e deceduto il giorno dopo. La situazione tornava a rimanere statica, con la fortezza borbonica sempre minacciosa e cagione continua di vittime e di danni, mentre l'accurato piano del Calona era insabbiato negli uffici della capitale. Il Piraino provvedeva ad assicurare l'ordine pubblico con la costituzione del corpo della Guardia Municipale; ed era cosa utile e opportuna; ma il maggiore problema rimaneva più che mai insoluto. Invano, il 17 aprile, Tommaso Landi inviava un «ultimo invito ai soldati della cittadella di Messina» perché abbandonassero la fortezza, lasciando libera Messina. Esso non ebbe risultato migliore dei precedenti, anzi proprio in quello stesso giorno la cittadella e il Salvatore riprendevano i tiri di disturbo e di distruzione sulla città, e tre giorni dopo giungevano alla cittadella notevoli rinforzi d'uomini e munizioni, li 21 aprile, venerdì santo, mentre la popolazione era raccolta nelle chiese la cittadella apriva di nuovo il fuoco sulla città. E con meraviglia di tutti le batterie siciliane non risposero.
Frattanto il governo borbonico, che s'era reso conto dell'incapacità organizzativa siciliana, e dell'opportunità quindi di guadagnar tempo senza spreco d'uomini e di munizioni, proponeva il 22 aprile al Piraino delle trattative per la sospensione delle ostilità. Ma il 24 i regi facevano una sortita; essa veniva respinta e allora seguiva un pesante bombardamento. Il giorno dopo questo riprendeva, e una nuova sortita aveva luogo verso Terranova. Ora finalmente il ministro Paterno si decideva a prendere in esame il piano del Galena e a farlo approvare dal consiglio dei ministri; e per la sua attuazione spediva in Messina il colonnello Longo il quale avrebbe dovuto dirigere l'artiglieria sotto l'alto comando del generale Ribotti. Accompagnavano il Longo il maggiore d'artiglieria Mangano e i maggiori di fanteria Poulet e Pisano; ma ora parve che l'armistizio giungesse finalmente in porto; e il 1° i maggio il Piraino ne dava notizie alla popolazione e al governo. Da ambo le parti si sarebbero mantenute le posizioni occupate, ma era proibito far nuove fortificazioni e opere di qualunque specie, né smuovere artiglierie. L'armistizio avrebbe avuto la durata di venti giorni, ma sarebbe stato tacitamente rinnovato qualora non fosse denunziato otto giorni prima. I termini dell'armistizio, col quale fra l'altro si restituivano 300 soldati e ufficiali prigionieri di guerra oltre ai 1200 restituiti nel febbraio, non piacque al popolo che lo considerò giustamente a tutto vantaggio dei borbonici. Ma la lotta proseguì a Messina. Il 15 giugno, nello stretto, le barche cannoniere siciliane, al comando del capitano di vascello Vincenzo Miloro, si battevano egregiamente contro una fregata a vapore napoletana, costringendola a ritirarsi. Nella notte del 17 i borbonici sferravano ancora un attacco nel piano di Terranova. Erano respinti, e alla lotta, episodio singolare, partecipavano due squadre di giovani donne armate di picche e di lunghi coltelli. La tradizione delle donne di Messina combattenti nel 1282, in difesa della città assediata da Carlo d'Angiò, sì perpetuava attraverso i secoli! In verità il male inguaribile era dato dalla cittadella. Mandato a monte il razionale piano del Calona contro di essa, ora le fantasie si sbizzarrivano in piani semplicistici, come quello del Miloro, che pensava dì poter prendere di pieno giorno la cittadella coi due vapori, Vesuvio e Peloro, e le barche cannoniere; o come l'altro d'impadronirsi della piazza introducendovi nascostamente 5000 vipere; la guarnigione terrorizzata si sarebbe subito arresa! Finalmente, il 7 luglio, l'Orsini presentava un suo piano operativo. Ormai la rivoluzione calabrese stava rovinando e la situazione diveniva sempre più difficile. Le truppe che stavano domando le Calabrie avrebbero potuto volgersi contro Messina. L'Orsini disponeva ora di 112 bocche da fuoco e ne chiedeva altre 24 di grosso calibro. Proponeva poi un bombardamento della cittadella, lento e misurato per nove giorni continui; dopo di che il forte del Salvatore non avrebbe potuto resistere più di sei ore, e anche la piana di Terranova sarebbe stata sgombrata dai borbonici. Ciò avrebbe permesso ai siciliani d'impadronirsi con una mina del piccolo forte Don Blasco, già preso e poi riperduto, come sappiamo; inoltre i nuovi cannoni di grosso calibro richiesti dall'Orsini, e posti in batterie, avrebbero tenuto lontano le navi borboniche. In questo modo la cittadella si sarebbe trovata bloccata completamente e priva di rifornimenti dal mare, e soprattutto in vista della necessità d'essere continuamente provvista d'acqua, la guarnigione dopo pochi giorni si sarebbe arresa. Il piano dell'Orsini era in realtà molto semplicistico; tendeva a rinnovare l'azione di bombardamento del marzo precedente, che si era dimostrata cosi poco efficace, aumentandola d'intensità e soprattutto integrandola coll'azione delle nuove batterie contro le navi borboniche: molto più serio e meditato il piano del Calona. Già il primo bombardamento aveva ridotto i siciliani privi di munizioni; lo stesso pericolo si presentava ora; e giustamente il Piraino, nel trasmettere tale piano a Palermo, osservava che se allo scadere dei nove giorni di bombardamento la guarnigione non si fosse arresa, la città, priva di polvere e di proiettili, sarebbe rimasta alla mercé dei regi. Ma il Piraino non sapeva proporre null'altro che una dilazione dell'operazione fino a quando ci fossero munizioni in quantità tripla di quelle occorrenti secondo il piano Orsini. Il commissario governativo in realtà ancora s'illudeva nell'opera della diplomazia anglo-francese, perché lasciava al ministro la decisione circa l'operazione per la conquista della cittadella, oppure il rinunziarvi nella speranza di un'evacuazione pacifica della guarnigione grazie all'azione della diplomazia straniera. E il ministro Paterno né approvava né respingeva il progetto. Il governo siciliano in realtà s'illudeva che con l'insediamento del duca di Genova quale re di Sicilia, insediamento che si sperava appoggiato dalla Francia e dall'Inghilterra, la minaccia borbonica all'isola avesse a dileguarsi. Il 14 luglio, il governo siciliano era stato informato da Lord Napier che Ferdinando II preparava una poderosa spedizione contro la Sicilia. Tale notizia provocò interpellanze delle Camere a Palermo, il 18 e 19 luglio, ma il ministro degli Esteri manifestò la sua fiducia nel prossimo riconoscimento dell'indipendenza e nella garanzia dell'Inghilterra e della Francia. E la Camera dei Comuni, accogliendo la richiesta di un circolo di Messina, decretava la demolizione della nefasta cittadella, non appena fosse occupata dalle armi nazionali! E ora il ministro della Guerra si decideva a respingere definitivamente il progetto dell'Orsini. Tuttavia il governo voleva far mostra di non vivere solo nella fiducia del riconoscimento internazionale del regno di Sicilia, e il Paterno intraprendeva un giro d'ispezione nella Sicilia orientale, iniziandolo da Messina. Ma nulla di conclusivo si ottenne. Pure non si può dire che non fosse viva la preoccupazione per il pericolo incombente nella maggior parte della popolazione. La cittadella rinnovava a volte i violenti cannoneggiamenti; e il duca della Montagna, nuovo colonnello comandante della Guardia Nazionale, invitava con un manifesto i cittadini a iscriversi per organizzare una milizia preparata a difendere la Sicilia da un'invasione straniera, così come il parlamento aveva stabilito con un decreto del 22 luglio. Si giunse a una vera agitazione popolare il 3 e 4 agosto perché si provvedesse finalmente sul serio alle urgenti necessità militari.
Ora realmente parve che l'Orsini volesse far qualche cosa; e diede disposizioni per l'esecuzione di lavori sulla spiaggia di Milazzo, e poi su quella messinese dallo stretto fino oltre Scaletta e Ali, nonché per alcuni rafforzamenti e trinceramenti in Messina dal lato di Terranova. Ma in realtà tutto era subordinato agli aiuti d'uomini e di materiale che sarebbero venuti da Palermo. Comunque l'Orsini riprendeva in esame il suo piano e quello del Calona, e stendeva un nuovo progetto, spedito a Palermo il 12 agosto. Esso si fondava sopra la conquista del fortino Don Blasco, dato che nel piano di Terranova si erano piazzate nuove artiglierie ed eseguiti lavori d'approccio. Preso il fortino, sarebbe stata la volta di quello del Salvatore: di notte 400 uomini su barche si sarebbero portati sotto il forte, dopo un precedente violento bombardamento contro il forte stesso e contro il prospicente lato nord-ovest della cittadella. Scalate le cannoniere, il forte sarebbe stato occupato di sorpresa. Dopo di che sarebbe stato ripreso il bombardamento della cittadella e sarebbero intervenuti anche i cannoni dello stesso forte conquistato del Salvatore; mentre altre forze dal Salvatore percorrendo l'arco della penisola si sarebbero portate verso la cittadella costruendo delle trincee e piazzando contro di essa una parte delle artiglierie del Salvatore. La cittadella sarebbe stata sottoposta al tiro delle batterie dominanti dalla collina, di quelle del piano di Terranova e delle altre del Salvatore e del piano di San Ranieri nella stessa penisola. In questo modo la truppa nemica, completamente circondata, priva dei pozzi d'acqua del Salvatore e dell'aiuto della flotta, e bombardata da ogni lato, avrebbe dovuto capitolare. In sostanza il piano dell'Orsini ricalcava quello del Calona, mirando però a rendere l'azione assai più rapida e sbrigativa; opportuno il correttivo dell'inizio dell'operazione dal piano di Terranova per richiamare soprattutto da questa parte l'attenzione del nemico; ma nell'insieme di più problematico successo, ad onta delle numerose artiglierie disponibili. E in realtà, malgrado qualche piccolo lavoro fatto lungo la costa a sud di Messina, per una ventina di chilometri essa rimaneva quasi indifesa; mentre i lavori fatti a nord fino a Capo Faro e la situazione della cittadella dal lato meridionale parevano proprio invitare i regi a non sbarcare a nord di Messina, ma a sud della città. E purtroppo l'Orsini scriveva a Palermo che tutte le disposizioni erano state date per proteggere la città da uno sbarco; e riferendo le notizie di un ammassamento di truppe regie in Calabria, ripeteva che la città poteva considerarsi al sicuro contro ogni sbarco! V'erano fra i combattenti degli elementi energici e audaci, i quali, vista la lentezza esasperante con cui si aiutava Messina, decidevano d'impadronirsi di 17 cannoni di grosso calibro, artiglieria del vascello 'Sannita' demolito da anni per ordine di Ferdinando I, ancora giacenti sotto le macerie dell'arsenale già quasi distrutto dai bombardamenti borbonici e situato nel piano di Terranova, a poca distanza dagli elementi avanzati della cittadella. Riuscivano così a ricuperare, con varie operazioni notturne in cui si distinse l'audace squadra «Vittoria o morte» del Pagnocco, tutti quei cannoni, che però l'Orsini volle utilizzare per nuove batterie a occidente della punta del Faro presso Spartà, fisso nell'idea dello sbarco nemico a nord di Messina. Il pericolo si faceva sempre più manifesto; l'11 agosto il comando della Guardia Nazionale emanava non un invito ma l'ordine a tutti i possessori di fucili di qualsiasi tipo di consegnarli per armare i militi che ancora ne erano privi. Dal 15 agosto la cittadella riprendeva con particolare violenza il tiro sulla città. Pure lo spirito dei cittadini era altissimo; durante il bombardamento del 24 agosto un ragazzo di dodici anni ebbe fracassata una gamba e lungo tutto il tragitto sino all'ospedale gridò «viva Maria della Lettera! Morte ai realisti!»; e un altro, troncate ambo le mani da una granata, accortosi che una donna a tale spettacolo piangeva, le disse: «Non a voi, ma a me spetta piangere, che così come sono ridotto non mi resta speranza di vendicarmi». Avendo inoltre il governo comunicato che gli ufficiali avrebbero avuto l'intero soldo e i soldati doppia paga, gli uni e gli altri risposero d'esser al servizio della patria e di rinunziare a miglioramenti economici.
La situazione era in vero sempre più grave: fra il 22 e il 27 luglio l'esercito piemontese subiva la sconfitta di Custoza e ripiegava sull'Adda e su Milano e il 9 agosto era stato firmato l'armistizio dal Salasco. Il duca di Genova non aveva ancora accettata l'offerta della corona siciliana; e vinti i piemontesi e trionfante l'esercito austriaco, il re di Napoli si sentiva sempre più sicuro. Il contegno della Francia e dell'Inghilterra si faceva sempre più riservato. Il 13 agosto era caduto il ministero Stabile; e invero la sua politica poteva considerarsi fallimentare. Gravissima la situazione finanziaria mentre l'esercito regolare era quasi inesistente; all'estero il promesso riconoscimento franco-inglese del regno era mancato, e il duca di Genova aveva sempre dilazionato l'accettazione della corona. All'interno agitazioni contadine, occupazioni di terre e inguaribili rivalità personali. Pure il nuovo ministero presieduto dal marchese di Torrearsa ricalcava la via del predecessore, sperando sempre che Inghilterra e Francia avrebbero impedito l'invasione della Sicilia da parte dell'esercito borbonico. Il 14 agosto, un decreto stabiliva l'obbligo di fornire cavalli e muli requisiti per l'esercito, ma ancora non si giungeva all'obbligo del servizio militare. Sin dal febbraio si era decretata la formazione di un embrione almeno d'esercito regolare costituito da 14 battaglioni, arruolati volontariamente, ma sottoposti a disciplina militare con quadri regolari; cosi da sostituire le squadre che a Palermo erano state disciolte e che anche in altri posti erano molto ridotte. In realtà si erano avuti molti ufficiali improvvisati, ma, quanto ai soldati, l'alloggiamento, il vestiario, l'armamento procedettero più che mai a rilento. Esisteva invece la Guardia Nazionale, ma istituita soprattutto con elementi del medio ceto e dell'aristocrazia a difesa della proprietà e per il mantenimento dell'ordine. Francesco Crispi e Giuseppe La Masa proposero al parlamento un decreto di reclutamento obbligatorio, ma ebbero tutti contrari compresi il comitato di guerra e i deputati di Messina Picardi e La Farina! Ai primi di settembre in Sicilia non c'erano che 6 battaglioni regolari efficienti. Il Torrearsa tuttavia volle che il Consiglio dei ministri e il comitato di guerra, prendessero in esame sia pure coll'acqua alla gola il nuovo piano d'attacco dell'Orsini alla cittadella di Messina; ma non si voleva, sempre nell'illusione della mediazione anglo-francese, che l'iniziativa delle operazioni partisse dal governo e perciò si deliberava di lasciare la decisione al consiglio civico e al consiglio di difesa di Messina. Purtroppo lo stesso Piraino, accecato da tale illusione, aveva consigliato una simile pavida soluzione. In realtà il Piraino riteneva che il consiglio civico, costituito di commercianti, proprietari e d'altri elementi moderati, avrebbe respinto anch'esso la proposta, e invece il 24 agosto questo deliberava «Messina essere pronta a qualunque sacrificio». Se non che il consiglio di difesa decideva di chiedere nuove istruzioni a Palermo. Ora però la situazione precipitava tragicamente. La sera del 1° settembre verso la mezzanotte era annunziato l'avvicinarsi di 10 vapori da guerra, una fregata a vela, un trasporto e molti lancioni napoletani, che si trovavano a trentacinque miglia dallo stretto. Le illusioni dei dirigenti siciliani svanivano di colpo e si era di fronte a una tragica realtà.
Già nell'agosto le truppe che avevano domato l'insurrezione calabrese e assommavano col presidio di Reggio a circa 14000 uomini, si erano venute dislocando tra Bagnara, Villa San Giovanni e Reggio. E il 30 agosto da Napoli s'erano imbarcate altre truppe scelte: il 3° e 4° reggimento svizzero, un battaglione del reggimento di marina, 4 compagnie di carabinieri, 4 batterie d'artiglieria, il servizio sanitario e lo Stato Maggiore. Comandante di tutta la spedizione era il tenente generale Carlo Filangieri, principe di Satriano, figlio di Gaetano Filangieri, l'illustre autore della Scienza della legislazione, e che noi abbiamo visto come colonnello aiutante di campo del re Gioacchino, combattente valorosissimo nel 1815 al ponte sul Panare, partecipe nel '20-21 al movimento costituzionale, poi per alcuni anni in disgrazia, e richiamato in servizio dal nuovo re Ferdinando II. All'alba del 1° settembre la squadra napoletana era davanti a Reggio, ove era stabilito il concentramento di tutte le forze destinate ad operare contro la Sicilia e innanzi tutto contro Messina. Esse comprendevano i 14000 uomini già in Calabria, cui si dovevano aggiungere i 4000 imbarcati a Napoli, e poi i 5000 della cittadella di Messina. Si giungeva così a una forza di 23000 uomini, cui è necessario aggiungere almeno 1500 uomini della marina da guerra, che parteciparono allo sbarco e ai combattimenti del 3 settembre, e avremo ben 24500 uomini impegnati contro Messina, sostenuti da quasi 450 cannoni, fra quelli della cittadella, della flotta, e delle artiglierie mobili. La flotta constava di tre fregate a vela e sei a vapore, di due corvette a vapore, di sei piroscafi, d'una ventina di barche cannoniere, diciotto scorridore e altri piccoli legni. Che cosa opponeva Messina a un simile spiegamento di forze? Due battaglioni di «camiciotti», 1000 uomini complessivi, 400 artiglieri, 300 zappatori del genio e 200 guardie municipali; e inoltre 500 marinai cannonieri addetti alle batterie fra Messina e il Faro, i quali non presero parte alla lotta. In totale le formazioni che potremmo chiamare regolari assommavano a 2500 uomini, di cui 2000 nei punti attaccati. A queste bisognava aggiungere 2500 uomini delle squadre; 500 uomini di Guardia Nazionale e 500 altri uomini degli equipaggi delle scialuppe e inoltre 2000 elementi delle squadre dislocati lungo la costa da Calati a Forza d'Agro al sud di Messina, e da Torre Faro a Milazzo. Nell'insieme dunque Messina disponeva di 6000 uomini armati alla meglio, addestrati in modo inuguale e senza una vero capo, contro 25000 soldati rappresentanti la parte migliore dell'esercito borbonico e con un capo, veterano delle guerre napoleoniche, d'innegabile valore ed energia. Per di più, come abbiamo visto, i lavori di rafforzamento e di difesa erano effettivi soprattutto dal lato settentrionale fra Messina e Punta del Faro; mentre erano scarsi dal lato meridionale. Un trinceramento si estendeva dalla banchina del porto di fronte alla cittadella fino al torrente Zaera, dove era stata piazzata una batteria di grossi calibri (da 24 e da 36 libbre) la quale batteva il lato meridionale del bastione Don Blasco, ma poteva a sua volta essere battuta energicamente dal mare e aveva rafforzamenti insufficienti. Essa avrebbe dovuto opporsi a uno sbarco immediatamente a sud di Messina, fra il forte Don Blasco e la foce del torrente Zaera; mentre non pare che fosse stato contemplato sul serio uno sbarco in forze a sud di tale torrente, nel cosiddetto piano delle Mescile, limitato ad ovest dalla strada Messina-Catania. Il grosso delle artiglierie messinesi, 112 pezzi, si trovava disseminato agli sbocchi delle strade nella parte meridionale della città, sulla banchina del porto, per arginare le sortite dal piano di Terranova, e in altri punti, in modo da poter battere il fortino avanzato di Don Blasco, mentre il resto era disseminato sulle colline a ovest della città per battere la cittadella. La posizione di tali artiglierie era stata molto criticata perché in posizione bensì dominante, ma troppo distante dalla cittadella, dal forte del Salvatore e dal forte Don Blasco, da 2300 a 3500 metri di distanza. Ma soprattutto tali batterie non offrivano nessun appoggio ai difensori nel caso di uno sbarco nemico sul litorale delle Moselle o più a sud. Delle barricate erano state costruite soprattutto verso il piano di Terranova ma nulla era stato fatto al riguardo della protezione degli altri punti e specialmente del lato destro meridionale. E contro uno sbarco da sud, Messina alla potente flotta borbonica non avrebbe potuto contrapporre che 16 barche cannoniere. La città poteva disporre però ancora di cittadini risoluti a combattere, ma pur dopo le requisizioni compiute non si disponeva che di 5000 fucili per armarli, mentre sopra una popolazione dì 70000 abitanti, ben 20000 sembra che ne richiedessero. Quanto alle munizioni esse potevano, specialmente per l'artiglieria, ampiamente bastare, e viceversa deficienze incolmabili si avevano nei fucili, nelle artiglierie mobili e nell'organizzazione di tutti i numerosi elementi disposti a battersi; anche ospedali, ambulanze, medicinali erano insufficienti. Ma soprattutto difettava una vera direzione; la città era abbandonata a se stessa e le beghe locali avevano fatto allontanare il Ribotti, il Longo e il Calona. A capo delle forze siciliane concentrate in Messina era adesso Antonio Pracanica, industriale, buon patriota, animoso e ambizioso ma privo di conoscenze militari; comandante di tutta l'artiglieria riunita in Messina il colonnello Orsini, ex tenente borbonico, e a quanto sembra con una preparazione tecnica relativa. Quanto al commissario del governo Domenico Piraino, avvocato, egli era inesperto di cose militari e avrebbe dovuto avere presso dì sé un consiglio di guerra. Ma sebbene uomo integerrimo e sincero patriota si era illuso fino all'ultimo nell'efficacia dell'azione diplomatica anglo-francese per stornare il pericolo, e la sua opera sia nei provvedimenti di difesa sia nel pretendere aiuti da Palermo era stata assai manchevole. Sorpreso dagli avvenimenti annunziava per telegrafo a Palermo l'imminente pericolo reclamando immediati soccorsi; e il ministro della Guerra gli rispondeva: «Lasciate sbarcare il nemico, poi lo ricacceremo»! Al tempo stesso però il Piraino aveva immediatamente spedito a Palermo una commissione di 4 membri per ottenere i soccorsi urgenti. Proprio in quell'angoscioso 1° settembre in Palermo la Camera dei Comuni esaminava con sfoggio di dottrina costituzionalistica la lista civile da concedersi ad Alberto Amedeo di Savoia, futuro re dei siciliani! Nella notte sul 2 settembre la popolazione, nessun ceto escluso, lavorò per scavare trincee dal lato meridionale della città, e ancora una volta donne del popolo e dell'aristocrazia prestavano la loro opera; una grossa mina era collocata sotto il porto franco. All'alba del 2 settembre il Piraino lanciava un appello telegrafico a tutte le autorità dell'isola e riuniva quel consiglio di guerra di cui non aveva voluto in precedenza servirsi; esso, chiamato però così tardivamente, decideva unicamente d'adoperare nella difesa terrestre i 500 marinai delle cannoniere. Il Filangieri aveva spedito da Reggio, al mattino del 2, 5 battaglioni di rinforzo alla cittadella e aveva diviso il corpo di spedizione in due divisioni: la prima, agli ordini del maresciallo di campo Paolo Pronio, composta di 2 brigate, rispettivamente costituite dalla guarnigione della cittadella di Messina una, e l'altra dai 5 battaglioni inviati allora; la 2a, al comando del maresciallo dì campo Ferdinando Nunziante, formata pure di due brigate al comando dei generali Lanza e Busacca, destinata a sbarcare nel piano delle Moselle, giungere alla strada consolare Messina-Catania, fare una conversione a sinistra e muovere poi, di concerto con la divisione Pronio, contro il lato meridionale della città. È da rilevarsi che questa divisione, la quale comprendeva il meglio delle truppe che già avevano sottomesso le Calabrie ed era rinforzata da reparti svizzeri, contava la brigata Lanza, composta da ben 4 battaglioni di cacciatori (che avevano 8 compagnie invece di 6 ciascuno) e da 3 battaglioni di fanteria, mentre quella del Busacca aveva 3 battaglioni svizzeri, un battaglione di pionieri e due battaglioni di fanteria, oltre a due compagnie di pontonieri per lo sbarco: era dunque la divisione Nunziante, appoggiata anche da 8 pezzi da montagna, una divisione sceltissima.
Alle due della notte sul 3 settembre la città era posta in stato d'allarme. E veramente s'iniziava lo sbarco dei napoletani, che il Filangieri concepiva però, a quanto sembra, innanzi tutto come una vigorosa ricognizione offensiva, ma tale da mutarsi all'occorrenza in azione risolutiva. Per prima cosa la batteria Sicilia venne sottoposta a un violentissimo fuoco da parte delle cannoniere e delle fregate borboniche, appoggiate dalle artiglierie del forte Don Blasco e della cittadella. Dopo aver resistito per circa un'ora e aver subito gravissime perdite, i difensori superstiti, inchiodati i cannoni, dovevano ritirarsi. Non esisteva una seconda batteria di rincalzo alle spalle della batteria Sicilia, né l'Orsini aveva armato il forte Gonzaga che avrebbe potuto battere efficacemente una parte della zona di sbarco; che egli, come sappiamo, aveva solo rilevato la sua troppa lontananza dalla cittadella; solo quando la batteria Sicilia era rovinata, l'Orsini, dalla batteria del Noviziato e da quella di torre Vittoria, iniziava finalmente il fuoco. Ma esso non valeva a impedire che truppe di sbarco e altre provenienti dal bastione Don Blasco, con un battaglione svizzero in testa, giungessero alla batteria Sicilia e, malgrado il fuoco della batteria siciliana del Noviziato, s'impadronissero della posizione. Il grosso, preceduto dal battaglione svizzero, avanzava verso il Borgo di Zaera incendiando case e massacrando chi trovava sul suo cammino, donne e vecchi; ma ora un contrattacco siciliano sferrato dai due battaglioni di «camiciotti», da una squadra di 230 uomini, diretta da Luigi Pellegrino, da altre squadre e da cittadini armati alla meglio (s'erano costruite anche aste della lunghezza di un metro e mezzo con punta di ferro e con quelle s'erano armati parte dei cittadini bramosi di battersi), fermava gli assalitori, mentre franchi tiratori tra gli alberi dei giardini e dai cascinali cagionavano perdite agli svizzeri che, dopo accanita lotta, ripiegavano volgendo infine in rapida fuga e abbandonando 4 cannoni. Anche i guastatori e i marinai intenti alla demolizione della batteria Sicilia si davano alla fuga, abbandonando qualche loro cannone e si reimbarcavano. La lotta aveva assunto un carattere veramente selvaggio, soprattutto dopo i massacri indiscriminati compiuti dagli svizzeri; un'ottantina di persone, combattenti o no, erano state da loro barbaramente uccise. Ora i siciliani agirono allo stesso modo e circa 200 svizzeri, fatti prigionieri, venivano massacrati. La squadra borbonica si ritirava a Reggio Calabria e a Catena. I messinesi esultarono del successo. Il fallimento della ricognizione offensiva era seguito da un bombardamento particolarmente intenso, bombardamento « infernale » quale mai s'era visto fino allora e che accanto ai crolli provocava anche numerosi incendi: « Fu allora che si comprese essere quella una guerra di sterminio. Alla rabbia e alla vendetta del nemico non bastava la conquista, ma voleva l'estrema rovina di Messina». Le artiglierie messinesi risposero con la maggiore energia, ma erano troppo distanti e nell'insieme non valsero a provocare anche solo un rallentamento del tiro borbonico sulla città. Nessuna batteria siciliana venne colpita dai cannoni borbonici, il che prova che non svolgevano un'azione pericolosa e che il bombardamento borbonico si volgeva esclusivamente sulla città con un'azione di distruzione ormai sistematica volta ad abbattere la mirabile volontà di resistenza dei difensori. Ad onta di ciò i messinesi ritenevano di aver vinto e che il bombardamento fosse l'inumano sfogo di un nemico costretto a rinunziare all'impresa. Tale illusione ebbero pure il Pìraino, il Pracanica e l'Orsini. Del resto la lotta era stata sostenuta dai capi in sottordine o dall'iniziativa spontanea dei combattenti. Il Piraino, arso il palazzo del Senato ove si riuniva la municipalità, il Banco nazionale e la segreteria del commissariato del potere esecutivo, s'era ritratto prima nel convento dei padri crocìferi, poi in quello di Sant'Andrea d'Avelline, fuori portata del tiro delle artiglierie nemiche; il Pracanica, comandante in capo, aveva coadiuvato i pompieri nello spegnere l'incendio del palazzo del Comune, ma era rimasto lontano dal combattimento vero e proprio; l'Orsini aveva provveduto alla pronta costituzione di un distaccamento d'artiglieria che aveva contribuito alla riuscita del contrattacco e aveva cercato di dirigere in seguito la lotta delle artiglierie contro la cittadella; ma nemmeno lui aveva avuto una parte direttiva nella difesa e nel contrattacco. Al termine di quella tremenda giornata, il Piraino si limitava a ordinare che una parte delle forze distaccate a Mìlazzo entrassero in Messina, e che gli equipaggi delle ultime cannoniere venissero pure in città sia per il servizio delle batterie che per aiutare a spegnere gli incendi. Veniva anche disposto che si facessero barricate ma soprattutto dal lato nord, perché era opinione comune che dopo tale scacco i borbonici o avrebbero rinunziato all'impresa o avrebbero ritentato dall'altro lato. Il popolo comunque accorreva con non sminuito ardore a far lavori, e al solito senza distinzione d'età, di classe, di sesso; e anche il clero infiammava alla resistenza i cittadini. Ma dal lato meridionale non si facevano barricate, né interruzioni stradali, né si ponevano artiglierie. La mattina del 4, alle prime luci, il bombardamento riprende. L'artiglieria siciliana risponde, e ormai il piccolo forte del Salvatore è ridotto a un ammasso di rovine; ma troppo tardi: le operazioni del Calona e dell'Orsini contro la cittadella e i suoi antemurali non sono più possibili. E la cittadella viceversa resiste più che mai ed è un vero vulcano che vomita senza sosta incendio e morte. E continuano dal piano di Terranova gli accenni a nuove sortite dei regi. Il generale Filangieri avrebbe voluto nella giornata imbarcare il grosso della divisione Nunziante, non per ritirarsi ma per procedere a un'azione di viva forza sulla spiaggia più a sud di Messina almeno un paio di chilometri; ma le condizioni del mare burrascoso glielo avevano impedito. All'alba del 5 settembre il duello d'artiglieria riprendeva violentissimo, mentre si annunziava che le batterie cominciavano a difettare di cartocci preparati, e di conseguenza il consiglio di difesa deliberava che il tiro dell'artiglieria siciliana dovesse essere più lento. All'alba del 3 settembre la commissione messinese era arrivata a Palermo, e il Consiglio dei ministri aveva deciso di mandare subito a Milazzo il vapore Vesuvio con 13000 razioni di viveri, 1400 fucili, molte munizioni, denaro e 1000 uomini di squadre con a capo Giuseppe La Masa. La commissione aveva chiesto truppa regolare e Palermo aveva 6 battaglioni di camiciotti, ossia 3000 uomini, mentre quasi tutte le sue squadre erano state sciolte perché indisciplinate e composte di elementi di ogni sorta. Comunque, nella mattina del 5 giungevano da Milazzo un battaglione, e da Palermo la commissione con 15000 once, alcune munizioni, e colla promessa che in Messina sarebbero presto giunti 1000 uomini armati guidati dall'improvvisato colonnello La Masa. In realtà il La Masa la sera del 4 era sbarcato a Spadafora, a una decina di chilometri oltre Milazzo, con soli 2 o 300 uomini diì squadre; e al mattino del 5 giungeva a Messina alloggiando i suoi nel Cenobìo del Salvatore de' Greci, un paio di chilometri fuori della città dal lato nord. I soccorsi apparivano addirittura irrisori, e il Piraino, profittando di una nave inglese, rispediva il Natoli, presidente dell'ambasceria, a Palermo, perché mandassero quanto di meglio avevano delle loro truppe; intanto Messina continuava ad essere sottoposta al bombardamento spietato: il fumo era densissimo e la città, a detta della stessa relazione dello Stato Maggiore napoletano, pareva bruciare interamente. Catania invitava la città sorella a mandarle donne, vecchi e bambini, mentre teneva pronta una schiera di armati, che ancora non si era mossa perché il Pracanica aveva dichiarato dì non aver bisogno d'uomini! Messina, aveva dichiarato il Natoli a Palermo, «è decisa a farsi seppellire sotto le sue ruine... decisa ancora a non cedere un palmo di terra...; qualunque risoluzione che farà la Camera per aiutare Messina non sarà perduta». E Ruggiero Settimo nel proclama ai siciliani del 2 settembre aveva dichiarato: «Il governo... sa che è figlio di una rivoluzione, e conosce i mezzi estremi coi quali si salvano le rivoluzioni!» E nella seduta ai Comuni del 3 settembre, il ministro della Guerra Paterno aveva affermato: «Il governo ha dato tutti i provvedimenti per la difesa di quella illustre città». Arrivato il 5 settembre il Natoli a Palermo, veniva allestita una seconda spedizione con munizioni, armi e denaro, che partiva la sera stessa. E il marchese di Torrearsa scriveva al Piraino: «Questo governo non tralascìerà mezzo intentato perché ai supremi bisogni della nobilissima città si provveda in tutti i modi possibili di armi, munizioni, uomini e denaro». In realtà Messina lottava quasi del tutto abbandonata a sé.
All'alba del 6 settembre, mentre la cittadella iniziava un nuovo feroce bombardamento contro la città, controbattuta questa volta energicamente dalle artiglierie siciliane, tornato il mare tranquillo, la flotta borbonica muoveva da Reggio verso Messina, quindi piegava verso sud tenendosi vicina alla costa fino all'altezza del villaggio di Contessa, tre chilometri e mezzo all'incirca dall'estremità meridionale di Messina. Iniziava quindi un forte cannoneggiamento su tutta la zona destinata allo sbarco. L'operazione napoletana costituiva una vera sorpresa per i dirigenti della difesa della città, pure fu un accorrere di tutta la popolazione verso la zona minacciata. La strada consolare rasentava la collina tenendosi dapprima a quasi un chilometro dal mare, e via via accostandosi sempre più così da distare dal villaggio dì Contessa poco più di mezzo chilometro. La strada era costeggiata da un seguito ininterrotto di case ai due lati; verso la collina il terreno si elevava gradatamente rotto da qualche burrone e coperto di ulivi e con case rurali abbastanza robuste, mentre dalla parte opposta, verso il mare, erano case di campagna e vigneti, e mura divisorie e fitte siepi di cacti; parecchie strade-torrenti, anguste e arginate da mura, conducevano dalla marina alla strada consolare. Uscendo da Porta Nuova, per un tratto di circa tre chilometri e mezzo, si aveva dapprima sulla sinistra il vasto convento della Maddalena, poi il sobborgo di Zaera, intersecato dalla fiumara omonima, quindi il lungo villaggio di Gazzi e infine il villaggio di Contessa; di fronte al quale soprattutto aveva luogo lo sbarco. Primo obbiettìvo dunque il villaggio di Contessa, col possesso della strada consolare, dopo di che l'intera 2a divisione borbonica, fatta una conversione a sinistra, avrebbe proceduto contro la città avendo per direttrice principale la strada consolare, colla sinistra avanzante lungo i poggi, il centro lungo la strada, la destra fra la strada e la marina. La difesa siciliana non aveva contemplato un'azione nemica che andasse oltre la fiumara della Zaera. A difesa di Contessa erano accorsi tuttavia la squadra del Pagnocco, ormai famosa per il suo ardimento, il battaglione milazzese del maggiore Sant'Antonio, e gli abitanti della zona; mentre più indietro, in riserva, erano i due battaglioni di camiciotti, con alcuni pezzi d'artiglieria leggera. La Guardia Nazionale sì trovava in terza linea poco oltre Zaera, e ad essa s'erano aggiunti molti giovani armati in qualsiasi modo. Nell'insieme le forze della difesa erano esigue; e si trovavano di fronte a una grossa sceltissima divisione appoggiata dalla flotta; per di più non avevano un capo! L'Orsini rimaneva sulla collina di fronte alla cittadella, il Pracanica se ne stava col commissario del governo e col sopraggiunto La Masa al convento del Salvatore de' Greci, tre chilometri a nord di Messina. Alle otto e mezzo ha inizio lo sbarco. Mette piede a terra per primo il reggimento di marina, costituendo la testa di ponte dello sbarco e mirando ad ampliare sempre più a semicerchio la sua occupazione. Lo segue il I battaglione Cacciatori, comandato dal maggiore palermitano Piarteli, già in Calabria e destinato a distinguersi nell'esercito italiano a Custoza nel 1866; egli senz'altro punta col suo scelto battaglione sul villaggio, ma le sue truppe trovano una resistenza vigorosa: dalle case, dai fossi, dai muri parte un fuoco violento; dove i cacciatori riescono ad avanzare sono fermati in violenti corpo a corpo. Il battaglione deve tosto retrocedere e con gravi perdite; e per di più giungono alcuni rinforzi siciliani e qualche pezzo d'artiglieria. Il Filangieri scende allora subito a terra per meglio dirigere l'operazione, e con lui anche il generale Lanza, mentre la squadra svolge un cannoneggiamento intenso su tutta la zona. Altri tre battaglioni di cacciatori accorrono a rafforzare sulla destra e sulla sinistra il battaglione Pianell, mirando soprattutto ad avvolgere all'estremità di Contessa la difesa siciliana. Tuttavia anche quest'azione coordinata di quattro scelti battaglioni fallisce prima che sia raggiunta la strada consolare, e con gravi perdite. Sbarcano due nuovi battaglioni, uno di svizzeri e uno di fanteria, e l'azione, affidata ora al comandante di tutta la divisione generale Nunzìante, è condotta dai 6 battaglioni, mirando questa volta a gravitare non più alla propria sinistra, ma alla destra, lungo la fiumara di Bardonaro. Intanto la flotta continua ad appoggiare vigorosamente l'azione colle sue grosse artiglierie. Ma anche questa volta l'attacco borbonico fallisce di fronte alla resistenza delle squadre e degli artiglieri, rafforzati sempre più da volontari messinesi, dalle guardie municipali della città e dall'artiglieria leggera. I cacciatori sono riusciti finalmente a raggiungere la strada consolare, ma senza potervicisi mantenere. Sembra a molti fra i borbonici che non sia possibile procedere oltre e che si delinei, di fronte a una così disperata difesa, il fallimento dell'impresa. Ma il Filangieri non è disposto a cedere, e insiste perché l'azione graviti non a sinistra ma a destra, e ai 6 battaglioni già impegnati ne aggiunge altri 3, uno svizzero e 2 di fanteria, tutti e tre di rincalzo alla destra. Alla fine, non prima di mezzogiorno e mezzo, il quarto attacco borbonico - dopo una lotta accanita in cui il generale Lanza rimane ferito e rischia di cader prigioniero, di fronte alla squadra Etnea di Bronte - riesce a giungere e a sostenersi sulla strada consolare e, dopo una disperata lotta di casa in casa, a conquistare l'intero villaggio di Contessa. Per ottenere questo successo ci sono volute quattro ore, con quattro successivi attacchi, impegnando contro poche migliaia di siciliani male armati e senza una direzione nove scelti battaglioni, 2 di svizzeri, 4 di cacciatori, 3 di fanteria, sostenuti dal reggimento di fanteria di marina e da un centinaio di cannoni della flotta! Purtroppo nella disuguale lotta cadeva eroicamente il caposquadra messinese Antonino de Salvo, detto Pagnocco, mentre faceva fronte agli svizzeri; e la sua squadra, 200 uomini circa, dei quali già molti caduti morti e feriti, ora purtroppo si disperdeva; e cadeva gravemente ferito anche il maggiore Sant'Antonio, cosicché ai difensori, privi di una superiore direzione, venivano a mancare i due capi in sottordine che di fatto avevano diretto la difesa. Così i borbonici erano giunti alla consolare, e i difensori del villaggio di Contessa, squadre e cittadini, venivano tagliati fuori. Pure la difesa si sostenne, con munizioni sempre più scarse e senza viveri, contro svizzeri e cacciatori borbonici, e una batteria borbonica perse nell'azione ravvicinata quasi tutti gli artiglieri. Solo verso le quattordici il villaggio era preso. I superstiti ripiegavano per la collina, e la difesa cercava di sostenersi ancora appoggiata colla destra alle alture, col centro al villaggio di Gazzi, e colla sinistra alle case e ai muriccioli e ovunque si presentasse un qualsiasi appiglio tattico di difesa. Il disgraziato villaggio di Contessa diventava intanto un rogo ardente, ove bruciavano le case coi morti e i moribondi. « I soldati napoletani, - narra il Piraino, - provveduti di materie infiammabili, appiccavano il fuoco a misura che s'avanzavano alle case dei villaggi ed ai magnifici casini..., seminando da ogni lato la distruzione, l'incendio, la morte, senza riguardo alcuno alle donne, ai fanciulli, ai vecchi, agli ammalati...; era guerra d'esterminio e non di conquista, che la feroce soldatesca napoletana, per volere supremo, consumava su quelle infelici contrade».
Ora la 2a divisione borbonica faceva la predisposta conversione a sinistra, così da avanzare alla sinistra per i poggi, con un battaglione di svizzeri e tre di cacciatori, al centro coll'altro battaglione svizzero, uno di cacciatori e tre di fanteria, e alla destra con un terzo battaglione svizzero e il reggimento fanteria di marina. Ma in realtà la divisione ebbe bisogno di riordinarsi e di riposarsi, e non riprese l'avanzata che nel tardo pomeriggio. La difesa siciliana tentò di fermare il nemico subito dopo Contessa, sulla sinistra della fiumara di Bardonaro. Camiciotti, squadre, cittadini e militi della Guardia Nazionale, tentarono anzi una disperata controffensiva, appoggiata da alcuni piccoli cannoni, ma essa risultò frammentaria e slegata; pure fu una lotta veramente eroica, in cui i siciliani riuscirono anche a impadronirsi di due cannoni. Alla fine i borbonici vincevano, grazie soprattutto alla loro artiglieria e all'azione degli svizzeri e dei cacciatori per la collina. La difesa siciliana aveva finito col concentrarsi nella difesa del villaggio di Gazzi, soprattutto attorno alla chiesa di San Nicolo, vale a dire al centro, dove erano i due battaglioni dì camiciotti. Un comando della difesa che fosse esistito e avesse funzionato avrebbe dovuto disporre per un razionale schieramento di tutte le forze disponibili e soprattutto per una riserva; e invece tutto questo mancò. Luciano Crisafulli, che era rimasto a Milazzo, udito lo sbarco borbonico era accorso giungendo a tempo a partecipare con una sua schiera alla nuova fase della difesa, ma il comandante delle forze dì Scaletta, a non più di quattordici chilometri a sud del campo di battaglia sulla strada di Taormina, si guardò bene dal fare altrettanto, e così pure il colonnello Interdonato che si trovava con 800 uomini e qualche cannone a guardia della costa a Tremestieri sulla stessa strada, a non più di tre chilometri dal campo di battaglia, sì guardò bene dall'intervenire; anche 500 uomini che erano stati richiamati da Gesso a diciassette chilometri da Messina, non giunsero in tempo, e così pure quelli che erano alla punta del Faro! Strana mescolanza di luci e di ombre la difesa di Messina del settembre 1848. Accanto a prove di eroismo mirabile, quali in non grande misura si trovano in tutte le rivoluzioni del Risorgimento, dolorosi esempi di inettitudine, di pusillanimità, dì deplorevole inerzia. Durante la dura lotta, scrisse il La Farina: «Nessuno sapeva a chi obbedire, dove convenire, dove andare, come approvvisionarsi. L'Orsini, unico uomo di guerra che là fosse, era occupato dalle sue artiglierie. Il Pracanica usciva a quando a quando ad animare i combattenti, non a comandare, che non poteva e non sapeva». E difatti l'Orsini rimase sempre a Torre Vittoria, sulla collina di fronte alla cittadella. Il Pracanica, comandante in capo delle forze siciliane in Messina, non vide in realtà il campo di battaglia; il Piraino si portò dal convento di San Salvatore de' Greci, tre chilometri a nord di Messina, nel convento di Sant'Andrea Avelline, in città; il La Masa, rimasto sino al pomeriggio coi suoi 200 armati a San Salvatore de' Greci, dopo le insistenze del Piraino, muoveva verso Gazzi, poi retrocedeva con un futile pretesto, ed era dal commissario rimandato avanti. Giungeva per un momento alla fiumara di Bardonaro, proprio quando i regi stavano compiendo un momentaneo locale ripiegamento; ma tosto scomparve dal campo della lotta. In realtà « il solo protagonista della dura e spieiata lotta fu il popolo, guidato da pochi ufficiali superiori ed inferiori, dotati solamente di personale coraggio». La difesa di Gazzi durò circa un'ora; in essa di distinse anche la «squadra della morte». Ma la lotta continuò ancora con centri di resistenza isolati. S'iniziava una nuova fase dell'ostinata difesa. Anche la Guardia Nazionale aveva finito col disperdersi, ma rimanevano pur sempre nuclei notevoli di camiciotti, di squadre, di cittadini, decisi a battersi fino all'estremo. La divisione borbonica procede a sostituzione di reparti, cosicché si ebbero ora alla sinistra i 4 battaglioni di cacciatori napoletani con un nuovo battaglione svizzero, al centro i due battaglioni del 3° reggimento svizzero e i due precedenti di fanteria, e alla destra il precedente svizzero, il reggimento di fanteria di marina, e gli equipaggi delle barche cannoniere. L'ala sinistra, procedendo per i poggi, giunse alla frazione di San Cosìmo e alle Carrubare (quasi all'altezza di Porta Zaera) e qui i 4 battaglioni di cacciatori e il battaglione svizzero non trovarono altra resistenza, sembra, che i milazzesi di Luciano Crisafulli; da parte sua l'Interdonato che, chiamato sul campo della lotta, finalmente si era mosso, lasciò il grosso dei suoi 800 uomini alle Carrubare, poscia dichiarando di voler prendere alle spalle i nemici s'avviò su per la collina e disparve. Intanto al centro i borbonici avanzavano verso il borgo di San Clemente, e qui si riaccendeva la lotta col solito furore, ma la resistenza data l'enorme sproporzione delle forze non poteva durare a lungo, e ripiegava alla fiumara Zaera. Ora il Filangieri faceva sostare le forze del centro, ormai a circa un chilometro dalla città; e a sostegno dell'ala destra e del centro borbonici stava per entrare nella lotta dalla cittadella, per il piano di Terranova, anche la la divisione. L'ala destra della 2a divisione aveva un compito non facile, perché come sappiamo oltre la fiumara Zaera era un trincerone che si appoggiava al bastione di Santa Chiara, e vi erano artiglierie che battevano la contrada Moselle, fra la fiumara e le mura; e dietro, fra la Porta Zaera e la Porta Nuova, era il robusto complesso edilizio del convento della Maddalena. Essa però aveva il valido appoggio dell'artiglieria navale. L'estremità della destra napoletana riusciva a impadronirsi della batteria di Santa Chiara e a distruggerla, ma urtava nell'accanita resistenza del retrostante fortino Pizziddari e i borbonici dovevano retrocedere. Intervenivano gli svizzeri, e anche tale batteria era conquistata, e allora la difesa dal lato della marina si concentrava attorno al convento della Maddalena, circondato da un alto muro e protetto da robusti cancelli. La notte poneva fine alla furibonda lotta; per testimonianza di un combattente svizzero non si fece alcun prigioniero! Ma ora entrava in campo il maresciallo Pronio colla sua divisione. Egli intendeva abbattere in un punto il muro di cinta del convento di Santa Chiara, occupare l'edifizìo, quindi prendere alle spalle la batteria del Palazzo Reale e impadronirsene, e poscia, eliminate altre due batterie, procedere verso Porta Nuova. Un'ardita avanguardia, formata da una compagnia di pionieri e da 4 compagnie scelte sostenute da 4 obici, traversava, sotto il fuoco delle batterie siciliane e della stessa fucileria, il piano di Terranova, ma l'operazione procedeva lenta. I borbonici occupavano però anche il porto franco. Accorrevano sul posto quanti patrioti erano disseminati per la città. Il porto franco era minato e s'era dato fuoco alla miccia, ma le acque piovane impedivano che essa funzionasse. Tuttavia i siciliani, guidati dal valoroso Lanzetta, fermavano il nemico e si preparavano anzi a contrattaccare; e l'artiglieria concentrava dall'alto i suoi tiri sulla spianata di Terranova. Una bomba cadeva in una fitta schiera nemica, ammazzando 12 soldati e, « mettendo fuoco ai cartucci che i regi portavano nei loro sacchi a pane, feriva, bruciava, mutilava più di 200 soldati ». Rimanevano feriti il colonnello Mori e un capitano. Ciò determinava fra i regi urla spaventevoli, timor panico e la loro confusa fuga verso la cittadella. In questo modo l'attacco della divisione Pronio era miseramente fallito.
Non pare tuttavia che da parte siciliana si fosse compresa l'importanza grande del successo. In realtà i capi erano tutti lontani. Che un contrattacco lanciato dai siciliani in questo momento di estrema confusione pel nemico avrebbe avuto la possibilità di obbligare i regi a imbarcarsi di nuovo è stato in seguito asserito; la cosa può tuttavia rimanere dubbia. Sta di fatto però che l'idea del rimbarco corse realmente fra le schiere borboniche, ma il Filangieri vi sì oppose nettamente; a quanto sembra, egli riteneva che una sconfitta davanti a Messina sarebbe stata più fatale di quella di Palermo nel gennaio, e avrebbe compromesso l'esistenza del trono salvata il 15 maggio. Ordinava perciò alla flotta di dirigersi subito verso Reggio per togliere alla truppa ogni idea di possibile ritirata, dato che questa vi si fosse insinuata. E il Filangieri passò la notte, ad onta della grave e intensa giornata precedente sul campo, seduto sopra un affusto per poter intervenire subito nel caso di disordini fra le truppe. Il che proverebbe che il grande sforzo e le gravi perdite cominciavano a scuoterne il morale, pur trattandosi di elementi scelti. Certo per la seconda volta il Filangieri, con la sua grande tenacia, impedì che la spedizione si mutasse in un clamoroso rovescio. E la notte trascorse fra un ininterrotto fuoco degli avamposti delle due parti. Il Piraino, sebbene non fosse uscito dalla città, nel pomeriggio del 6 l'aveva però traversata tutta quanta a piedi sotto il bombardamento, e aveva potuto notare l'ardente animo della popolazione, e aveva incontrato donne coraggiose e armate, incitanti gli uomini al combattimento, e frati che esortavano e guidavano Ì popolani. Ma non era un uomo di guerra né aveva la tempra di un animatore di combattenti. Quando l'assalto della la divisione in Terranova falliva così clamorosamente, a guidare i difensori non erano né il Piraino, né i principali capi, ma il messinese A. Lanzetta, e questi, accanto allo spettacolo eroico, vide anche gruppi di sbandati che si lamentavano d'essere abbandonati dai loro capi, e vide il La Masa che tornava con una scusa dall'avere abbandonato il campo, e poté constatare che Stefano Interdonato non era affatto giunto alle spalle del nemico e che il battaglione dì Catania e i reparti di Gesso e del Faro non si erano mossi. Rimase quindi scoraggiato, senza essere in grado di prendere una decisione e comunque di organizzare meglio la resistenza. Per di più gli agenti consolari francese e inglese s'intromettevano perché il Piraino col loro appoggio ottenesse una tregua; e qui il commissario parve trovare una via d'uscita: l'intervento alleato avrebbe forse potuto far sospendere l'eccidio della città, o almeno far guadagnare ventiquattr'ore per consentire l'arrivo dei tardivi aiuti da Palermo, e quelli dell'isola intera. Però quando egli sali alle sette pomeridiane sul vascello francese 'Hercule', si accorse che francesi e inglesi non intendevano imporre con la forza una tregua ai borbonici, ma se mai indurre lui a una tregua che preludesse a una capitolazione. E allora egli volle prima sentire i capi militari, e al Salvatore de' Greci tale improvvisato consiglio, al quale partecipavano una dozzina di persone fra cui, oltre il Piraino, il Pracanica, il La Masa e l'Onofrio, decise, col consenso del La Masa, di contrattaccare al mattino per la collina partendo dalla posizione del convento di Montesanto, al di là della fiumara di Zaera, posizione mantenuta dai siciliani. Il contrattacco per Paltò sul fianco sinistro borbonico sarebbe stato sferrato all'alba dal La Masa con 100 uomini, ossia la metà dei palermitani rimastigli, rafforzati dalla seconda spedizione palermitana di 800 uomini, ormai prossimi alla città. Avrebbero accompagnato il La Masa due guide e il colonnello Antonino Miloro, capo dell'ala destra siciliana. Il consiglio di guerra si scioglieva alle ventidue e mezzo. Il Piraino, il Pracanica e alcuni comandanti di squadre girarono allora per la città in cerca dì nuova gente per il contrattacco dell'indomani, ma videro la città «deserta, in fiamme e in rovine»; ormai gli elementi popolani che ancora tenacemente resistevano sì trovavano già in linea. Scrisse il Piraino (op. cit., p. 61): «Un giorno finiva in cui eransi consumati fatti di grandissima bravura e dì incredibile codardia; d'una abnegazione favolosa e di funeste diserzioni, di gloria e di vergogna». Mentre il Piraino, con pochi altri, girava per la città cercando combattenti da aggiungere alle forze del La Masa, questi ordinava di propria iniziativa alla seconda spedizione palermitana di retrocedere verso le alture di Messina, ove egli l'avrebbe raggiunta, e verso le ventitre colla guida di Antonino Miloro, si avviava verso la montagna; ma non dirigendosi a Montesanto, bensì risalendo la fiumara di Salvatore de' Greci, e per sentieri selvaggi varcava lo spartiacque dei Peloritani, e all'alba del 7, quando avrebbe dovuto muovere contro il nemico, si trovava lontano quattordici chilometri; non solo, ma il La Masa trascinava con sé oltre gli 800 palermitani, già arrivati presso Salvatore de' Greci, i 500 camiciotti dì Gesso, coi loro cannoni e numerosi volontari della zona (Salice, Castanea, Quattromasse) che si disponevano ad accorrere a Messina. «La diserzione del La Masa, - scrisse il Piraino (p. 64), - faceva crollare la base delle deliberazioni del consiglio di difesa...; la difesa di Messina si concentrava nei pochi combattenti che rimanevano, esausti dì forza dopo quattro giorni di lotta, depressi nel morale per le tante diserzioni e per i disinganni di coloro che mancarono alla missione del comando e direzione». Alle sette del mattino il Piraino convocava il consiglio di difesa. In questo i capi si mostrarono molto scoraggiati. Il Pracanica dichiarò che non v'erano più cartucce, l'Orsini aggiunse che l'artiglieria non aveva più che pochi tiri da contrapporre al nemico; ed erano notizie quanto mai esagerate. Il Poulet annunzio che il suo battaglione di camiciotti s'era disperso, e l'Onofrio nulla disse del suo, mentre due compagnie per lo meno erano ancora al convento della Maddalena. Un membro del consiglio, Bonanno, insorse indignato e incitò alla resistenza: i combattenti in linea erano più che mai decisi a battersi! Tuttavia prevalse il partito della capitolazione. Nella stessa mattina del 7 settembre, a Palermo, il Paterno annunziava che il giorno prima era avvenuto il grande sbarco borbonico e che i combattimenti erano in corso; già nella notte, però, aggiungeva che era partita «una imponente spedizione... di truppa ben disciplinata e piena di entusiasmo e di amor patrio»; e nella notte prossima sarebbero partite munizioni d'ogni specie: «Dal governo non sì è intentato alcun mezzo per assicurare la nostra sorella Messina »! Il La Masa intanto proseguiva la sua marcia verso Milazzo. Sul lido di Spadafora stavano già per sbarcare 1200 uomini della terza spedizione palermitana, con artiglierie e munizioni, ma in seguito alle notizie date dal La Masa, il piroscafo Vesuvio volgeva la prora verso Milazzo. In questo modo il La Masa sottraeva alla resistenza almeno 2500 uomini, proprio nel momento culminante, e trascinava con sé il colonnello Miloro comandante dell'ala destra. Quanto ai soccorsi catanesi, da Catania il 6 settembre erano partiti i battaglioni di Guardia Nazionale della città; quello di Aci e un battaglione di camiciotti con due cannoni. Tali forze non giunsero mai a Messina e si disse che delle staffette spedite da un marchese dì Scaletta, con notizie catastrofiche, le avessero indotte a sostare. Il Filangieri si disponeva intanto a riprendere l'attacco. La divisione Pronio doveva puntare unicamente sul convento della Maddalena, mentre la 2a divisione doveva avanzare sullo stesso obbiettivo lungo la strada consolare e la sua sinistra avrebbe continuato l'azione per la collina. Il Filangieri, insomma, mirava a impadronirsi di tutta quanta la zona fuori della città, rinunziando pel momento ad assalire questa direttamente dal piano di Terranova. I siciliani occupavano alla loro destra il convento di Montesanto e le Carrubare, e al centro avevano una batteria sulla strada consolare nel borgo di San Clemente, una seconda più addietro e la terza a Porta Zaera. Al solito, le case, le ville, i muri e i fossi erano occupati da difensori. Anche la grossa batteria del Noviziato dall'alto dirigeva i suoi tiri sul nuovo campo di battaglia.
La difesa siciliana apparve subito tenacissima, ma anche l'attacco borbonico fu condotto con singolare energia; caddero così le prime due batterie della difesa e i borbonici si trovarono abbastanza presto davanti a Porta Zaera. Due battaglioni di cacciatori intanto si spingevano contro il Montesanto, dove avrebbe dovuto trovarsi il La Masa. Un gruppo di siciliani comandati dal maggiore Sacca si difendeva eroicamente, anzi questo valoroso contrattaccava costringendo i due battaglioni di cacciatori a ripiegare in disordine. Inviava allora due volontari all'arsenale per chiedere due altri pezzi d'artiglieria, ma i due trovarono l'arsenale chiuso; il colonnello Orsini si era già imbarcato sopra una nave inglese, ritenendo ormai perduta la partita! Erano le nove del mattino. Dalla parte opposta invece il comando borbonico faceva avanzare, a sostegno dei due battaglioni in rotta, un battaglione svizzero e poi altre tre compagnie svizzere. Ad onta di ciò, gli uomini del Sacca resistevano disperatamente, e da parte borbonica dovettero accorrere altre due compagnie svizzere e due di fanteria. Ma anche ora i siciliani continuarono a difendersi di casa in casa, finché non furono tutti in gran parte morti o feriti. Così i borbonici occupavano le Carrubare e il convento carmelitano di Montesanto. E di lì procedevano, sempre per l'alto, contro la batteria del Noviziato, i cui artiglieri, dopo aver sparato fino all'ultimo, vistisi minacciati di fianco e alle spalle, inchiodati i cannoni, uscivano col loro comandante Giovanni Corrao, per partecipare coi fanti all'ultima difesa. Subito dopo una trentina dì soldati borbonici si spingevano a occupare il forte Gonzaga, del tutto indifeso. Di qui i cacciatori napoletani si spingevano all'occupazione del Castellacelo, pure disarmato, e prendevano alle spalle la torre Vittoria e la torre Guelfonia, batterie aperte. Da esse l'Orsini, nei giorni precedenti, aveva diretto i bombardamenti contro la cittadella. In questo modo Messina sì trovava gravemente minacciata non solo dalla parte meridionale, ma anche dalla parte occidentale. E ora l'attacco riprendeva al centro. L'ospizio di Colle-reale, posizione avanzata sui primi poggi, era preso dopo viva resistenza; i malati e gli infermi fuggivano come potevano e molti venivano uccisi, e Io stesso ospizio era dato alle fiamme. Ora si sferrava l'attacco alla batteria di Zaera, dietro la quale erano i superstiti della difesa delle due batterie avanzate: alcune centinaia di messinesi e un gruppo di crociati palermitani che non avevano voluto seguire il La Masa. L'azione borbonica mirava ora a prendere la batteria non già con azione frontale, ma per mezzo d'una manovra avvolgente, operando al solito per la sinistra. La superiorità numerica degli assalitori aveva in questo caso buon gioco, e svizzeri, cacciatori e fanti borbonici riuscivano a giungere sul fianco e alle spalle dei difensori, uccidendo i valorosi che opponevano l'ultima, disperata resistenza. Veniva ora abbattuta la bandiera nera che, in segno di guerra mortale, era sventolata fino allora sulla Porta Zaera. E anche ora la resistenza per tutto il sobborgo oltre la porta continuò di casa in casa, e i borbonici riuscivano ad avanzare incendiando sistematicamente tutte le case. Il combattimento continuava così per oltre un'ora, con lotte feroci corpo a corpo, in cui, è d'uopo riconoscerlo, anche da parte svizzera e napoletana si dimostrò grande tenacia e intrepidezza. I difensori si raccoglievano per un'ultima estrema difesa nel convento della Maddalena. A mezzogiorno la tremenda lotta aveva una sosta. Alle cinque di mattina di questo giorno il Filangieri aveva ricevuto da parte dei due capitani di navi inglesi e francesi, Robb e Nonay, l'invito a concedere una tregua per evitare nuovo spargimento di sangue e stabilire le condizioni d'una capitolazione da discutersi a bordo del vascello francese 'Hercule'. Il generalissimo non prese alcuna decisione: ad onta dell'insuccesso finale al piano di Terranova della sera precedente, egli aveva la sensazione e la conseguente persuasione che la difesa siciliana, per quanto eroica, non fosse guidata da una mente direttiva e da un conseguente adeguato uso di rincalzi e di riserve; egli riteneva perciò di avere in pugno la vittoria e di poter dettar legge, e rispondeva in modo anodino; in realtà voleva trattare dopo aver sferrato l'ultimo decisivo colpo. Verso le otto egli mandava il suo capo di Stato Maggiore a bordo dell'Hercule, non con una lettera di risposta ma soltanto con l'incarico di rispondere verbalmente che avrebbe accolto la sospensione del fuoco da parte dei siciliani e le basi delle condizioni. In realtà, il Filangieri voleva solo guadagnar tempo. Ora il consiglio di difesa discusse per ben due ore e mezzo, mentre fuori di Messina aspramente si combatteva, le condizioni della capitolazione. Alla fine vennero formulate queste proposte: i borbonici avrebbero avuto il possesso di fatto della città; questa però sarebbe rimasta sotto il governo delle sue attuali autorità fino alla decisione definitiva del parlamento siciliano. Allorché tale risposta giunse al Filangieri, le truppe regie stavano demolendo la barricata di Porta Zaera e la battaglia infuriava nuovamente attorno al convento della Maddalena. Il commissario, d'accordo con la commissione, stabiliva che l'Orsini e il Pracanìca si recassero in città per far sospendere le ostilità, in attesa del risultato delle trattative. Il commissario e il rimanente della commissione restavano intanto a bordo del vascello francese. Ma l'Orsini appena sbarcato abbandonava Messina risalendo la stessa fiumara per la quale s'era dileguato il La Masa. Il Pracanica invece annunziava in città che la capitolazione stava per essere conclusa. E invece la risposta del Filangieri non giunse. Verso le tredici i borbonici iniziavano l'ultima definitiva operazione contro l'estremo baluardo messinese costituito dal convento della Maddalena e dall'insieme del tratto di mura, con adiacenti edifici, che andava dalla Porta Nuova al monastero dì Santa Chiara. Si trattava di un'azione combinata fra le truppe della 2a divisione e quelle della cittadella, in modo da serrare in una tanaglia l'estremo ridotto della difesa messinese. Il convento era costituito da un complesso di alti edifìzi, aventi al centro la chiesa con un'alta cupola e due robuste torri campanarie; tale complesso di edifizi era cinto da un grosso e alto muro che si stendeva a semicerchio attorno al convento, a un chilometro circa dalla spiaggia del mare. I patrioti non solo s'erano asserragliati dietro le finestre del monastero, sulla cupola, sui due robusti campanili e dietro al muragliene di cinta, ma avevano sistemato a difesa tutte le case disseminate tra il convento e il mare e i numerosissimi muri e muretti divisori delle proprietà. Questo insieme di muri e muricciuolì costituiva all'ingrosso due successive linee di difesa dalla parte del mare, prima di giungere al muro del convento. In questa zona alle due estremità sì avevano da una parte la batteria di Santa Cecilia con 6 obici, e dall'altra, presso le mura, la batteria di Mezzo Mondello; altri 2 cannoni erano tra il muragliene del convento, le case e l'imbocco di via Santa Cecilia. I difensori sommavano a un migliaio circa, superstiti della tremenda battaglia del giorno prima: uomini delle squadre, volontari, camiciotti, operai del borgo della Maddalena, cittadini, cioè il fior fiore di quanto Messina e la Sicilia in quel supremo momento potevano dare. Contro questo estremo ridotto muovevano 2 battaglioni svizzeri, un battaglione di cacciatori, 3 battaglioni di fanteria, con una compagnia di pionieri, e 12 cannoni (oltre s'intende quelli della flotta e della cittadella): nell'insieme 4000 uomini di truppe sceltissime. L'operazione s'inizia col fuoco della squadra e della cittadella contro la contrada Moselle, ossia il primo tratto della zona dalla marina al famoso convento. Le truppe, uscendo dalla cittadella e dai pressi del bastione Don Blasco, si schierano lungo la marina volgendo le spalle a questa, quindi muovono in direzione da est a ovest. Due compagnie avanzano contro la batteria Mezzo Mondello che batte coi suoi tiri la destra borbonica. I siciliani oppongono subito una resistenza accanita e difendono disperatamente la prima e la seconda linea di difesa. La resistenza si fa poi ancor maggiore quando i borbonici giungono a contatto coll'insieme di difese del convento. Alla sinistra borbonica si trovano i due battaglioni svizzeri che procedono contro la batteria di Santa Cecilia. Per due volte gli svizzeri sono respinti e dopo due ore di lotta accanita hanno perso tutti i loro ufficiali. Un tentativo di azione avvolgente falliva e cadeva colpito a morte un capitano d'artiglieria leggera. Sembrò per un momento che ancora una volta la la divisione dovesse ripiegare nella cittadella, compromettendo al massimo grado anche Fazione della 2a divisione. Ma il generale Pronio, al capitano aiutante del colonnello svizzero Riedmatten, che lo informava della situazione gravissima chiedendo ordini, rispondeva di proseguire nell'attacco se possibile o di resistere sul posto. Alla fine 3 cannoni potevano essere messi in batteria contro il muro di cinta, aprendo una breccia per dove si lanciavano gli svizzeri; anche qui però essi si trovarono esposti a un fuoco violentissimo, ed ebbero nuove perdite; inoltre la porta del convento, sul lato di mezzogiorno, aveva davanti a sé un robusto cancello di ferro. Tuttavìa un soldato svizzero con una grossa mazza giungeva al cancello, faceva saltare un paio dì sbarre e apriva il varco alla penetrazione nel monastero. Un eroico gruppo di camiciotti cercò di resistere e volle sacrificarsi per proteggere la ritirata dei compagni. Questi prodi difesero palmo a palmo l'edifizio in una lotta senza quartiere. Una quarantina furono massacrati nei corridoi, nelle celle e nella chiesa, mentre ancora si difendevano. Vennero uccise anche una vecchia, una giovinetta e un ragazzo. E ora il magnifico tempio e il convento presero ad ardere, mentre i pochi superstiti si riducevano in un cortile attorno a un pozzo, e qui ancora si difesero finché ebbero munizioni; vistisi circondati, i pochi superstiti, sette in tutto, l'uno dietro l'altro si gettavano nel pozzo, in un deliberato estremo sacrìfizio. Ma anche preso il convento, gli svizzeri dovettero procedere ancora casa per casa, incendiando sistematicamente tutti gli edifizi sulla via Cardines e sulla via Porta Imperiale. Dopo non molto crollava il tempio, insigne opera d'arte, ed era distrutta la preziosa biblioteca benedettina. Erano circa le tre pomeridiane, la difesa di Messina poteva ora dirsi infranta. Le due divisioni borboniche si sarebbero presto congiunte. Pure per giungere a Porta Nuova gli svizzeri dovettero superare un'ulteriore resistenza lungo la stretta via Cardines, e anche qui continuava il solito orrendo quadro di lotta casa per casa, e di edifizi dati alle fiamme, con speciali preparati incendiari al fosforo. Intanto la 2a divisione avanzava contro la Porta Imperiale e, superate le due porte, le due divisioni si congiungevano per la strada parallela alla linea di mura Don Blasco, Mondello Noviziato. Ma nemmeno ora il Filangieri osava penetrare nel dedalo di strade della città vera e propria, e solo gruppi di soldati, scendendo dall'alto o penetrando in Messina dal piano di Terranova, si davano al saccheggio, e seguivano uccisioni di cittadini e incendi. Ormai tutte le batterie erano cadute o erano state abbandonate; restava solo quella di San Giuseppe con pochi artiglieri, al comando dell'intrepido messinese A. Lanzetta; questi, allorché vide due compagnie svizzere a poca distanza, dette fuoco alla reservetta delle polveri e si eclissò nel dedalo delle straduzze conducenti alla marina: Pesplosione cagionava fra gli svizzeri una quarantina di morti e feriti. Intanto gli artiglieri di un'altra batteria, quella di San Giacomo, insieme con alcuni camiciotti superstiti, opponevano resistenza accanita a due compagnie di cacciatori, quindi ripiegavano presso la cattedrale, ove avvenne l'ultimo sanguinoso conflitto. Due camiciotti superstiti per non cadere in mano al nemico si toglievano la vita.
I borbonici ormai avevano vinto, pure ancora non osavano occupare l'intera città, tanto più che calavano le tenebre; ma contro la zona non occupata infieriva il bombardamento e durava per altre sette ore. Alle cinque il Filangieri aveva telegrafato al re Ferdinando II: «Messina riconquistata rientrò sotto il giogo del suo legittimo sovrano. Una spaventevole difesa di due giorni non ha punto arrestato la mirabile bravura delle truppe reali che, al grido di viva il re, hanno superati tutti gli ostacoli». In verità la difesa di Messina era stata veramente epica; per tre volte la spedizione accuratamente preparata e con forze tanto soverchianti era stata sul punto di risolversi in un fallimento. La città era semidistrutta; eppure il bombardamento non l'aveva domata e i difensori s'erano battuti fino all'estremo; cosicché sì può ben dire che, malgrado l'insufficienza e la mancanza di capi, la città non si era arresa. Essa la sera del 7 settembre era tutta un incendio e ancora i vincitori paventavano nuove disperate sorprese. La difesa di Messina non è per nulla nota come meriterebbe; si potrebbe anzi dire che è quasi ignorata. Ha nociuto a ciò il fatto che apparve fuori dell'isola come una lotta fratricida, in difesa d'un particolarismo regionale anacronistico, e neppure si può dire che sia emersa qualche alta figura come Garibaldi a Roma, Guglielmo Pepe a Venezia, Tito Speri a Brescia. Ma se vogliamo considerarla come lotta per la libertà contro il Borbone fedifrago e liberticida e come manifestazione della capacità rivoluzionaria e della forza d'abnegazione del popolo italiano, dobbiamo riconoscere che solo le Dieci giornate di Brescia nella loro ultima fase si possono paragonare a quanto seppe compiere Messina. A Messina fu ancor più e soprattutto lotta di popolo, decisione ferma di non cedere, spirito di sacrifizio portato al più alto grado. Ma certo tutta la lotta di Messina, per ben otto mesi, fu una strana mescolanza di luci e di ombre, di eroismi e di manchevolezze, e mostrò soprattutto l'insufficienza della sua classe dirigente, e tale insufficienza apparve più che mai nel seguito della lotta.
Tratto da: "Storia militare del Risorgimento", Piero Pieri, Torino, Einaudi, 1962